19 Aprile 2024

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Soggetti a IVA compensi riscossi dopo cessazione attività professionale. Parere n.3/16 della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro

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I giudici della Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza 21 aprile 2016, n. 8059 (Clicca qui per leggerla), hanno ritenuto tassabili, ai fini dell’IVA, i compensi riscossi dopo la cessazione dell’attività professionale e relativi a “vecchie prestazioni” rese prima della cessazione.
Nello specifico, il Supremo Collegio, confermando sostanzialmente l’impostazione teorica sposata dall’Agenzia delle Entrate nella risoluzione 20 agosto 2009, n. 232/E, ha enunciato il seguente principio di diritto: «il compenso di prestazione professionale è imponibile a fini IVA, anche se percepito successivamente alla cessazione dell’attività, nel cui ambito la prestazione è stata effettuata, ed alla relativa formalizzazione».
La tassabilità ai fini dell’IVA è sancita da una distinzione concettuale che viene fatta tra il “fatto generatore” dell’imposta, costituito dalla prestazione di servizi effettuata, e l’ “esigibilità” dell’imposta, che è il diritto dello Stato di ottenere, da un dato momento, il pagamento dell’IVA dal soggetto passivo.
La Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro analizza le motivazioni della sentenza nel parere giurisprudenziale n.3 del 26 aprile 2016:

SOGGETTI ALL’APPLICAZIONE DELL’IVA I COMPENSI RISCOSSI DOPO LA CESSAZIONE DELL’ATTIVITÀ PROFESSIONALE E RELATIVI A “VECCHIE” PRESTAZIONI DI SERVIZI
Autore: Luca Procopio

Le Sezioni Unite civili della Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza 21 aprile 2016, n. 8059 si esprimono sulla rilevante questione giuridica della tassabilità o meno ai fini dell’IVA dei compensi riscossi successivamente alla cessazione dell’attività professionale e relativi a prestazioni di servizi rese prima di tale cessazione.
Nello specifico, il Supremo Collegio, confermando sostanzialmente l’impostazione teorica sposata dall’Agenzia delle entrate nella risoluzione 20 agosto 2009, n. 232/E, ha enunciato il seguente principio di diritto: «il compenso di prestazione professionale è imponibile a fini IVA, anche se percepito successivamente alla cessazione dell’attività, nel cui ambito la prestazione è stata effettuata, ed alla relativa formalizzazione».
I Giudici di legittimità sanciscono la tassabilità ai fini dell’IVA dei compensi riscossi successivamente alla cessazione dell’attività professionale e relativi a “vecchie prestazioni” muovendo dalla distinzione concettuale tra il “fatto generatore” dell’imposta, costituito dall’effettuazione della prestazione di servizi (come si esprime l’art. 63 della Direttiva IVA n. 2006/112/CE) e l'”esigibilità” dell’imposta, che è il diritto dello Stato membro ad ottenere, da un dato momento, il pagamento dell’IVA dal soggetto passivo (così si esprime l’art. 62 della medesima Direttiva), per poi ancorare il presupposto impositivo della prestazione di servizi e, quindi, la tassazione IVA del compenso de quo all’esecuzione della stessa prestazione e non al pagamento del relativo corrispettivo pattuito, come, invece, sembrerebbe suggerire un’interpretazione meramente letterale dell’art. 6, comma 3, del D.P.R. n. 633 del 1973, secondo cui «Le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo».
L’art. 6, comma 3, del D.P.R. n. 633 del 1972, ragionano le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, non può in alcun modo essere interpretato nel senso che il fatto generatore dell’imposta emerge al momento del pagamento del compenso, in quanto cosi applicandola la norma nazionale de qua si porrebbe in netto contrasto con il diritto dell’Unione europea, prevalente in materia di tributi armonizzati e costituito dal combinato disposto degli artt. 62, 63, 65 e 66 della Direttiva IVA 112/2006/CE e dalle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea 20 maggio 1975, causa C-11/75 e 26 ottobre 1995, causa C-144/94, dalle quali si ricaverebbe che gli Stati membri non hanno alcuna possibilità di identificare il momento dell’effettuazione delle prestazioni di servizi e, quindi, il “fatto generatore” dell’imposta con il momento dell’incasso del corrispettivo, qualora tale ultimo evento sia successivo al compimento del servizio.
L’art. 66, comma 1, lett. b), della Direttiva n. 112/2006/CE, in particolare, nel prevedere che «gli Stati membri possono stabilire che […] l’imposta diventi esigibile in uno dei momenti seguenti:
[…]
b) non oltre il momento dell’incasso del prezzo», consente di derogare all’individuazione congiunta del “fatto generatore” dell’imposta e dell'”esigibilità” della medesima nel momento di effettuazione della prestazione di servizi, prevista dal precedente art. 63, solo con riferimento all'”esigibilità”, ammettendo che quest’ultima, e solo quest’ultima, possa verificarsi al momento del pagamento del compenso, anche se successivo a quello di effettuazione della prestazione di servizi.
La soluzione di assoggettare ad IVA il corrispettivo conseguito dopo la cessazione dell’attività professionale, sempre secondo le Sezioni Unite, troverebbe fondamento anche nella necessità di assicurare il compiuto rispetto del principio della neutralità fiscale dell’IVA, in quanto solo così si impedirebbe la sottrazione all’IVA, che è un’imposta destinata a gravare esclusivamente sul consumatore finale, del valore aggiunto relativo alla prestazione di servizi effettuata precedentemente a tale evento e rispetto alla quale i relativi acquisti fatti a monte hanno partecipati al sistema della detrazione d’imposta.
In ultimo, si fa osservare che il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione nella sentenza n. 8059 del 2016 non troverà applicazione nei confronti del contribuente professionista che aveva instaurato il relativo precedente giudizio tributario sostenendo la non tassabilità IVA del compenso riscosso successivamente alla cessazione dell’attività professionale per una prestazione di servizi precedente.
Ciò in quanto il ricorso per cassazione promosso dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania, che aveva accolto la tesi del contribuente, è stato giudicato inammissibile dalle stesse Sezioni Unite civili in quanto l’Agenzia stessa non aveva fornito la prova che si fosse perfezionato il procedimento di notifica del ricorso per cassazione nei confronti del contribuente, che, difatti, non ha svolto difese nel giudizio di legittimità.
Le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, infatti, come emerge dal testo della sentenza, hanno deciso di affrontare la delicata questione giuridica nonostante la riscontrata inammissibilità del ricorso per cassazione per perseguire «l’esigenza nomofilattica di rimuovere incertezze e prevenire contrasti interpretativi».

Autore: Luca Procopio
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