25 Aprile 2024

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Quotidiano on-line

“Scritti sull’Impero (America, India, Irlanda) di Edmund Burke”. Tesina di storia culturale su Edmund Burke a cura di Giovanna Carbonaro. Relatori: Prof. Martelli, Dott.ssa Tossani.

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Redazione Due, 27 luglio 2015.-  “Scritti sull’Impero (America, India, Irlanda)” (Utet, Torino 2008, a cura di Guido Abbattista e Daniele Francesconi[1]) è una raccolta di scritti e discorsi imperiali di Edmund Burke[2] riguardanti i tre elementi di maggior forza dell’impero britannico a metà Settecento: America (sia settentrionale che caraibica), India e Irlanda. Tali testi, oltre a testimoniare l’evoluzione del pensiero burkiano dagli anni Settanta agli anni Novanta del XVIII secolo in materia di impero e colonie, offrono un’analisi puntuale dei tre contesti più significativi della politica imperiale britannica dell’epoca: la crisi dell’impero che determinò la nascita degli Stati Uniti d’America, l’inizio del dominio britannico in India e le relazioni con l’Irlanda che iniziava la lotta per la sua emancipazione politico-civile.                                                       Per comprendere il pensiero burkiano, nell’introduzione all’opera, Abbattista e Francesconi forniscono due chiavi di lettura. I due autori suggeriscono di partire dalla biografia stessa di Burke, il quale, membro del Parlamento inglese dal 1766 al 1794, ebbe modo di conoscere a fondo le problematiche imperiali riguardanti le realtà americane, indiane e irlandesi.                                                                 Irlandese di nascita (madre cattolica, padre protestante) e attorniato da collaboratori della stessa nazionalità (come William Burke), Burke vive il clima di complessità e di contraddizione dell’Irlanda britannica. Infatti, l’ordine politico ed ecclesiastico imposto dall’Inghilterra a fine Seicento aveva messo in uno stato di subordinazione l’Irlanda (in particolare, tramite restrizioni nel campo delle relazioni commerciali) e aveva operato una forte discriminazione religiosa (attraverso dei provvedimenti, le Penal laws, infatti, aveva privato la maggior parte dei cittadini irlandesi, che erano cattolici, di numerosi diritti in campo civile, politico e religioso). Burke, nel corso della sua carriera politica, interverrà spesso nelle relazioni politico-costituzionali anglo-irlandesi, schierandosi a favore di una Irlanda, sempre sotto il dominio britannico, ma libera sia in campo economico (usufruendo della libertà di commercio) che politico (ciò si realizzerà nel 1782 con la concessione dell’indipendenza legislativa dell’isola) e non più dilaniata da discriminazioni religiose, garantendo pari diritti per tutti i cittadini irlandesi, cattolici e protestanti. Burke si interessò anche alla realtà americana settentrionale, prima come rappresentante parlamentare di Bristol e poi come agente a Londra della colonia di New York. Ma soprattutto fu fervente sostenitore delle colonie americane contro l’esagerata tassazione imposta dall’Inghilterra, anche se non appoggiò mai la loro indipendenza. Si occupò anche dell’America caraibica, affrontando tematiche come la schiavitù e la tratta dei Neri e i vari rapporti commerciali. Infine, per circa un quarantennio si occupò anche dell’India, indagando sui rapporti economici e politico-militare anglo-indiani. L’India, divisa in una miriade di regni e sultanati, era passata sotto il controllo della Corona inglese attraverso la Compagni delle Indie orientali, che da semplice compagnia mercantile si era trasformata in un’istituzione politica e militare. L’obiettivo dell’Inghilterra a fine Settecento era quello di dare una precisa definizione giuridico-istituzionale della presenza britannica in India. Perciò vennero istituite due commissioni d’inchiesta: una commissione segreta (non pubblica) che si occupava della politica estera e militare della Compagnia, l’altra, la Select Committee, che si interessava all’amministrazione e all’influenza della compagnia nei diversi possedimenti indiani. Di quest’ultima commissione faceva parte Burke.                                                             Abbattista e Francesconi per dimostrare i precoci interessi burkiani per le problematiche commerciali, coloniali e imperiali, citano poi un’opera del 1757, l’“Account of the European Settlements in America”. In questo testo, che tratta dell’espansione commerciale e coloniale dell’Inghilterra, Burke scrive di una politica coloniale e imperiale che doveva essere illuminata e liberale.  Egli auspicava ad una politica che assicurasse in ogni campo libertà, diritti, buon governo e possibilità di sviluppo sia per i sudditi coloniali che per le popolazioni native sia per gli stessi schiavi. Eleva a modello la Francia, distintasi per aver saputo attuare una politica coloniale basata sulla buona amministrazione, sulla moderata imposizione fiscale sulle colonie e sul trattamento umano degli schiavi.                                                                                                          Quello che emerge da tutta l’opera è uno studio analitico e sistematico che Burke operò sulle realtà americane, indiane e irlandesi, arrivando alla conclusione che l’Inghilterra, se voleva continuare a governare un vasto impero, diversificato però per cultura, lingua e religione, doveva mantenere un forte potere centrale ma al tempo stesso doveva anche garantire la libertà delle province, avendo rispetto del diverso e tutelando i valori di giustizia e umanità.                                                                                           Passiamo all’analisi dell’opera. La sezione “America” contiene cinque scritti.                                                                                                             Il primo scritto, “Discorso sulla tassazione dell’America (19 aprile 1774)”, si inserisce in una fase delicata della crisi tra Gran Bretagna e le colonie nordamericane. L’Inghilterra, per rimediare ai problemi finanziari derivati della Guerra dei Sette anni, impose alle colonie nordamericane due provvedimenti: lo Sugar Act del 1764(che imponeva alti dazi sui prodotti di importazione alle colonie) e lo Stamp Act del 1765 (che imponeva un bollo sui documenti ufficiali e sui giornali)[3]. La madrepatria ribadiva così il proprio monopolio industriale vietando lo sviluppo autonomo delle colonie americane, ritenute solo come fonte di materie prime. Queste furono le cause della crisi che sfociò in veri e propri atti di ribellione da parte dei coloni: prima il boicottaggio delle merci inglesi (1767-1768), poi il “massacro di Boston” (1770)[4] e infine il “Boston tea party” (1773)[5]. Le difese delle colonie americane vennero prese dal partito Whig, di cui faceva parte lo stesso Burke.  Il discorso di Burke prende spunto dalla proposta di abrogazione del dazio sul tè mossa dal partito Whig[6]. Criticando le misure fiscali attuate dalla Gran Bretagna tra il 1769 e il 1770, Burke voleva che si ripristinasse la situazione del 1766, determinata dall’abrogazione dello Stamp Act. In questo lungo discorso, con sapiente maestria, Burke fa notare come la politica tributaria attuata dalla Gran Bretagna nei confronti delle colonie americane fosse stata ingiusta, ma anche lesiva dell’immagine della Corona britannica e contraddittoria. Attraverso numerosi esempi come l’istituzione dello Stamp Act e delle leggi Townshend[7] con le successive abrogazioni seguite da altre tassazioni (come i Coercive Acts), che avevano incendiato gli animi dei coloni (tassati oltre misura, senza ricevere benefici né essere rappresentati al parlamento inglese), Burke aveva fatto notare i passi falsi dell’Inghilterra. A mio avviso, istituire una tassa, dichiarando chiaramente che i proventi sono destinati alle spese pubbliche della Corona[8], per poi abrogarla e successivamente istituirne delle altre è per Burke un atto contraddittorio[9] e mina l’immagine della Gran Bretagna, che sembra unicamente voler sfruttare le colonie. La soluzione che propone Burke, oltre ad abrogare la superstite tassa sul tè, è quella che le colonie si autotassino liberamente da sole per contribuire alle spese della corona e non tramite tasse[10] imposte dalla Gran Bretagna. Tale soluzione delinea la concezione dell’impero a cui Burke accenna alla fine del discorso ovvero un impero a livello politico-costituzionale distinto dalla Gran Bretagna, che doveva essere governato in maniera particolare da poter essere subordinato alla corona ma allo stesso tempo in cui i singoli membri godessero di libertà e di rispetto dei diritti. Il secondo scritto è il “Discorso sulla mozione di conciliazione con le colonie americane (22 marzo 1775)”, tenuto in occasione di un bill contenente un piano di riconciliazione con le colonie nordamericane[11]. Burke propone l’abrogazione di tutti i provvedimenti fiscali e delle limitazioni civili imposte alle colonie americane nonché il riconoscimento del diritto di autotassarsi[12]. Burke suggerisce al governo delle linee guida per trovare un giusto compromesso. Sottolineando lo spirito di libertà nei coloni americani, insito per << […] discendenza, forma di governo, religione nelle province settentrionali e costumi nelle meridionali, educazione, lontananza fisica dal governo […]>>[13], Burke propone di riconoscere l’autonomia delle assemblee rappresentative coloniali come strumenti di autogoverno. In questo modo il principio di libertà costituzionale, simbolo della Corona inglese, sarebbe stato ripristinato e i coloni americani, discendenti pur sempre dagli Inglesi, avrebbero ritrovato i legami di affetto e rispetto per la madrepatria. Propone inoltre una tassazione per concessione da parte delle colonie e non per imposizione. Infine emerge da parte di Burke una grande ammirazione per l’industriosità degli americani (infatti illustra i risultati economici raggiunti dal commercio delle colonie e ne vanta i metodi con cui ha migliorato l’agricoltura)  e la voglia di istruirsi (evidenzia come siano diffusi lo studio della legge e le figure professionali dedite alla giurisprudenza). Il terzo scritto, “Lettera agli sceriffi di Bristol (3 aprile 1777)”, si colloca nei primi anni di guerra tra Inghilterra e colonie nordamericane. Burke, indirizzando la lettera a due sceriffi di Bristol (di cui era rappresentante parlamentare), intende comunicare con i suoi elettori e con il pubblico in generale, non solo per giustificare il comportamento parlamentare tenuto in seguito all’approvazione delle leggi limitative dell’habeas corpus[14], ma anche per esprimere le proprie posizioni riguardo al comportamento della Corona inglese e gli spiacevoli eventi che avevano portato a quella che lui definisce una “guerra civile” interna. La lettera si apre con la critica sfavorevole a due atti approvati dal parlamento inglese, convinto che con la forza delle armi avrebbe sottomesso le colonie. Il primo atto, a cui si riferisce, è l’American Treason Act, con il quale l’Inghilterra aveva sospeso la protezione dell’habeas corpus. Le persone accusate di tradimento o pirateria in America, potevano così essere trasferite in Inghilterra e messe in prigione senza avere la possibilità di potersi confrontare con le imputazioni a loro carico. Scrive, infatti, Burke che << […] processare qualcuno in base a questo Atto significa di fatto condannarlo senza possibilità di difesa. Egli viene trasportato in Inghilterra imprigionato nella stiva di una nave. Quindi viene buttato in un’altra galera, questa volta sulla terraferma. Viene incatenato e si ritrova senza denaro, senza il sostegno degli amici, a tremila miglia di distanza da ogni possibilità di dimostrare o confutare delle prove, in una situazione nella quale non si possono smascherare in modo circostanziato le eventuali false testimonianze. La pena capitale cui egli va incontro può forse venire somministrata nel rispetto di una forma, ma di sicuro egli non subisce un processo nel rispetto della giustizia>>[15]. Burke giudica iniquo e incostituzionale questo atto, che non fa altro che privare nuovamente i coloni della loro libertà. La corona, secondo il politico, dovrebbe invece garantire sul suolo americano dei tribunali competenti a garantire la giustizia nei confronti di chi compie reati. Burke accusa il governo di aver stabilito per la prima volta delle differenze tra i sudditi della Corona inglese. Il secondo atto è il “Letters of Marque Act”, che permetteva la cattura delle navi delle colonie da parte di navi private. Sempre nella lettera Burke manifesta il suo timore per la corruzione dei costumi inglesi e delle conseguenze che ne possono derivare avendo <<mosso guerra alle colonie non solo con le armi, ma anche con le leggi>>[16]. Scrive infatti: << […] Le guerre civili infliggono colpi durissimi ai costumi dei popoli: ne viziano la politica, ne corrompono la morale, ne pervertono perfino il gusto naturale e l’inclinazione all’equità e alla giustizia>>[17].           Il quarto scritto è la “Mozione di Edmund Burke sui fatti di St. Eustatius (14 maggio 1781)”, riguardante un episodio che era avvenuto nell’area caraibica (nell’isola di St. Eustatius) durante la guerra d’indipendenza delle colonie americane. St. Eustatius era una ricca e potente isola nel cuore dell’area caraibica sotto il dominio olandese e abitata da genti di varia nazionalità, che doveva la sua fortuna al commercio, ignorando gli embarghi commerciali che le grandi potenze coloniali imponevano danneggiandosi a vicenda. Inoltre, dal momento che St. Eustatius vendeva armi e munizioni a chiunque fosse disposto a pagare, l’isola fu uno dei pochi appoggi utilizzati per i rifornimenti bellici dalle colonie americane durante la Rivoluzione americana. Le buone relazioni esistenti tra gli Stati Uniti e St. Eustatius emersero chiaramente con il cosiddetto “incidente della bandiera”, quando il Governatore e Comandante dell’isola Johannes de Graeff decise di rispondere al fuoco di salve della nave statunitense Andrea Doria (16 novembre 1776). Gli Stati Uniti conferirono grande importanza all’episodio che, di fatto, significava il riconoscimento dell’indipendenza degli Stati Uniti. Gli inglesi diedero grande importanza all’episodio, lamentando il continuo commercio tra l’isola e le colonie ribelli. Proprio questo commercio dell’isola con i ribelli americani fu una delle principali cause dello scoppio della quarta guerra anglo-olandese, che fu disastrosa per i commerci dell’Olanda. Proprio in seguito a questo conflitto, gli inglesi occuparono St. Eustatius il 3 febbraio 1781. Il comandante de Graeff, pur non essendo ancora stato informato dello scoppio della guerra, conscio della superiorità militare del nemico, decise di arrendersi all’ammiraglio inglese Rodney. Dieci mesi più tardi St. Eustatius fu conquistata dalla Francia, alleata dell’Olanda durante il conflitto: fu così che gli olandesi ritornarono in possesso dell’isola nel 1784. Quello che fece infuriare Burke e il partito whig all’opposizione fu il trattamento riservato agli abitanti. Infatti furono confiscati merci, magazzini, libri contabili, beni, proprietà ed abitazioni. Le persone di ogni nazionalità (inglesi compresi) furono costrette a lasciare l’isola e gli Ebrei furono messi al bando. Il comportamento degli inglesi in questo episodio è per Burke un vero e proprio atto di tirannia e di crudeltà, avendo compiuto <<una confisca generale di tutte le proprietà trovate sull’isola, […], in modo indiscriminato, senza alcun riguardo per amici o nemici, per i sudditi di potenze neutrali o per quelli del nostro stesso Stato>>[18]. Scrive infatti:<<Si trattava di una crudeltà inaudita in Europa da molti anni e tale da configurarsi come una violazione assolutamente ingiustificabile, scandalosa e immorale del diritto delle genti>>[19]. La violazione del “diritto delle genti” è in particolare ribadita da Burke nei confronti degli Ebrei, <<il popolo che più di ogni altro dovrebbe essere cura e desiderio delle nazioni umane proteggere>>[20]. Con questo episodio, i politici dell’opposizione poterono accusare la corona inglese di aver provocato un conflitto innaturale, dati gli ottimi rapporti commerciali con l’Olanda e di rischiare l’isolamento della Gran Bretagna dalla scena internazionale.                                                 Il quinto e ultimo scritto è la “Bozza di Codice Nero (1780-1792)”. In questo scritto Burke si occupa della tratta degli schiavi neri e della schiavitù stessa, che vorrebbe cancellare. Burke è un precursore in questo ambito. Scrive infatti:<< […] Penso che la sua totale abolizione sarebbe tutto sommato più consigliabile di qualsiasi schema di regolamentazione o riforma. Piuttosto che tollerare che esso prosegua nella sua presente forma, io desidero sinceramente che cessi>>.[21] Ovviamente si rende conto di quanto sia difficile un’immediata soppressione di questa istituzione ormai radicata da secoli e su cui si basavano intere economie. Per cui nel suo scritto avanza una serie di regolamentazioni per migliorare la condizione di vita degli schiavi neri. Come egli scrive <<lo statuto consta di quattro parti principali: 1. Le norme relative ai requisiti di una nave adibita al commercio africano; 2. Le modalità di svolgimento dei traffici sulle coste d’Africa, compreso un piano per introdurre la civiltà in quella parte del globo; 3. Le regole da rispettare dal momento dell’imbarco dei Neri fino alla loro vendita nelle Indie Occidentali; 4. Le norme relative allo stato e alla condizione degli schiavi nelle Indie Occidentali, la loro manomissione ecc.>>[22]. Lungimirante è il suo progetto di portare l’istruzione e più in generale la civiltà sulle coste dell’Africa, dove avveniva il commercio degli schiavi neri. A mio parere ciò dimostra che in Burke c’è già un’idea di parità fra le razze e attraverso l’istruzione vuole che i neri non si trovino più in una situazione di totale sottomissione ai bianchi.                                                                               La sezione “India” contiene quattro scritti.                                                                 Il primo scritto, il “Nono rapporto della Commissione d’inchiesta della Camera dei Comuni (25 giugno 1783)”, si inserisce nell’ambito delle discussioni riguardanti la presenza britannica in India. Indagando sullo stato degli affari della Compagnia delle Indie orientali, Burke illustra i difetti del Regulating Act[23] del 1773 e i torti subiti dalle popolazioni native in tutto quel periodo. Evidenzia poi come il commercio anglo-indiano sia basato sullo sfruttamento delle ricchezze indiane (scrive Burke che <<il Paese patisce ogni anno un vero e proprio saccheggio della sua produzione manifatturiera>>[24]) ricevendo in cambio solo <<provviste militari e per la marina, uniformi per le truppe e altre merci destinate al consumo degli europei residenti in India>>[25]. Burke qui illustra anche il cattivo operato di Warren Hastings, primo governatore generale in India. In questo scritto emerge il timore di Burke che il governo politico in India potesse degenerare in un potere dispotico concentrato nelle mani della compagnia mercantile. Per cui auspica che in India fosse rispettata la legge della Corona inglese e che i sudditi indiani fossero tutelati.                                         Il secondo scritto è il “Discorso sull’<<India Bill>> di Fox (1 dicembre 1783)”. Il discorso illustra una dei due decreti che il governo di coalizione Fox-North introdusse per correggere gli abusi di potere compiuti dalla Compagnia delle Indie orientali guidata in India da Warren Hastings e per ridimensionare i poteri sovrani. Il decreto prevede che i poteri dei Direttori e degli azionisti della Compagnia fossero trasferiti a due commissioni di nomina parlamentare, che sovraintendessero all’amministrazione della compagnia mercantile, disciplinassero la condotta dei suoi funzionari e gestissero le imprese commerciali della Compagnia[26]. In questo discorso Burke cerca di far comprendere come il diretto controllo di una commissione di nomina parlamentare aumentasse l’influenza della Corona inglese, scongiurando così un imperium in imperio, che invece si era creato poiché in india era la Compagnia delle indie orientali a detenere il potere. Passando in rassegna gli abusi compiuti (viene chiamato in causa sempre Warren Hastings), Burke cerca di raccogliere consensi per il suo decreto poiché si rendeva conto che i codici di autoregolamentazione e le commissioni d’inchiesta non erano sufficiente a riformare il governo dell’India. Il terzo e il quarto scritto, rispettivamente il “Discorso di apertura del procedimento di incriminazione di Warren Hastings (15-19 febbraio 1788)” e il “Discorso di replica (28 maggio-16 giugno 1794)”, sono legati alla figura di Warren Hastings, accusato dalle Commissioni parlamentari d’inchiesta di malgoverno e corruzione. Subirà un processo durato dal 1788 al 1794. La campagna contro Hastings da parte di Burke iniziò nel 1786 e furono prodotti ventidue capi d’accusa che vanno <<dalla condotta della guerra contro i Rohilla […] all’interruzione dei finanziamenti all’imperatore moghul, dall’accusa di aver trascinato il Raja di Benares alle concessioni di contratti frutto di corruzione, dall’accettazione di donazioni illegali al rifiuto di dimettersi, dal traffico d’oppio ai maltrattamenti nei confronti delle principesse dell’Oudh, dai crimini commessi nell’Oudh alla gestione della guerra contro i Maratti>>[27]. Nel discorso di apertura del 1788, oltre a fare esempi di cattiva condotta, accusa Hastings di essersi creato un clima di omertà e connivenza[28] per poter attuare un governo dispotico. Scrive Burke:<<Mr. Hastings ha approvato, consolidato e accresciuto questo sistema, facendone lo strumento della più grande tirannia mai esercitata […]>>[29]. Hastings si difese dicendo di aver esercitato un potere arbitrario come era in uso in Oriente. Burke nel suo discorso si batte proprio per dimostrare che la difesa di Hastings è falsa in quanto nessun governo dell’Asia ha mai disposto di un potere arbitrario. Infatti spiega Burke che la maggior parte dell’Asia è costituita da governi maomettani quindi governi di legge. Scrive Burke :<<E’ una legge istituita da Dio, munita di una doppia sanzione, giuridica e religiosa, rispetto alla quale nemmeno il principe può derogare>>[30]. Conclude il discorso dicendo che <<il governo di Hastings si è rivelato un grande sistema di oppressione volto a derubare i singoli, depredare la collettività e soppiantare l’ordinamento inglese di governo>>[31]. Nel “Discorso di replica”, sostenuto nel 1794 davanti alla Camera dei Lord, Burke sottolinea ancora una volta le motivazioni che hanno portato all’incriminazione di Hastings, il quale per difendersi aveva a sua volta accusato di ingiustizia la Camera dei Comuni. Burke cerca in sostanza di smontare la difesa dell’ex governatore e viene ribadito come <<l’India non era affatto un paese assuefatto a un potere dispotico. Al contrario, possedeva una importante tradizione giuridica che aveva sempre garantito la protezione dei diritti e delle proprietà dei sudditi>>[32]. In Burke, a questa altezza, vi è anche lo spettro della Rivoluzione francese (1789) e infatti fa un velato paragone tra il potere dispotico di Hastings, che aveva rovesciato alcuni regnanti indiani (come il rajah di Benares, il nawab dell’Oudh e il governo del Bengala) e ciò che era successo in Francia. Burke teme che la Camera dei Lord potesse finire come il parlamento francese. Il discorso si rivela infine un appello a favore di un governo dell’impero basato sulla legge della Corona nel rispetto però della diversità culturale dei sudditi.                                               La sezione “Irlanda” contiene due scritti.                                                 Il primo scritto “Due lettere sul commercio irlandese (23 aprile 1778 e 2 maggio 1778)” è in realtà composto da due missive di Burke ai rappresentanti della Camera di Commercio di Bristol. Tema in questione era la concessione di misure di libertà commerciale dell’Irlanda. La prima lettera è la risposta alla missiva di Samuel Span, presidente della società dei mercanti di Bristol. La liberalizzazione del commercio irlandese aveva allarmato le comunità mercantili inglesi in particolare quella della città di Bristol, porto atlantico fortemente interessato nel commercio con l’isola, che vedeva minacciato il proprio monopolio. Essendo Burke rappresentante di questa città, gli furono chieste spiegazioni riguardo la posizione assunta in questo frangente. Burke risponde ai suoi elettori che è necessario liberalizzare il commercio in Irlanda poiché è l’unico modo per mantenerla unita all’impero britannico e per evitare di perderla come furono perse le colonie americane. Scopo principale è soprattutto la prosperità dell’isola che la corona britannica deve garantire se vuole governare con le sue leggi anche in questo paese. Scrive infatti:<<All’interno della nazione britannica è in corso un terribile scisma. Poiché non siamo in grado di riunire l’impero, è nostro compito dare ogni possibile forza e solidità a quelle parti che sono ancora contente di farsi governare dalle nostre istituzioni>>[33]. La seconda lettera è invece la risposta a due mercanti, Joseph Hartford e William Cowles, dove ribadisce la sua posizione a favore della liberalizzazione del commercio irlandese e fa degli esempi su come le leggi restrittive britanniche lo hanno danneggiato. Nelle due lettere, oltre all’interessamento alle condizioni dell’Irlanda, si può notare come le idee di Burke non vengono affatto influenzate dal parere sfavorevole dei suoi elettori, ai quali cerca di motivare con gran fervore le proprie scelte.

[1] L’opera si suddivide in tre sezioni “America, India, Irlanda”, che raccolgono i vari scritti. Tali sezioni sono precedute dall’introduzione di Abbattista e Francesconi, dalla bibliografia e da una nota editoriale.

[2] Edmund Burke (1729-1797), fu un politico, pensatore e scrittore britannico di origini irlandesi. Fu eletto membro del partito Whig alla Camera dei comuni del regno britannico. Viene ricordato per il suo sostegno alla lotta condotta dalle colonie americane contro re Giorgio III, che portò alla Rivoluzione americana (anche se Burke si oppose alla loro indipendenza) e soprattutto per la sua opposizione alla Rivoluzione francese con l’opera “Riflessioni sulla rivoluzione in Francia” (1790).

[3] L’imposta suscitò una forte opposizione tra i coloni (che già nel corso della guerra dei Sette anni avevano manifestato una certa insofferenza nei confronti dell’autorità britannica, in particolare ignorando gli obblighi e le limitazioni imposte ai loro commerci dagli Atti di navigazione). Normalmente, infatti, erano le assemblee rappresentative locali a legiferare in materia di imposizione fiscale e di organizzazione della sicurezza interna; oltre a violare il diritto fondamentale di ogni suddito britannico a non essere tassato in mancanza di suoi rappresentanti in Parlamento, lo Stamp Act venne percepito dai coloni come un tentativo di limitare i loro spazi di autogoverno.

[4] Questo avvenimento fu conseguenza dell’abrogazione delle leggi Townshend del governo North, che però aveva lasciato il simbolico dazio sul tè per ribadire il potere imperiale sulle colonie.

[5] L’episodio si configura come un atto di ribellione al Tea Act (maggio 1773), con il quale il governo inglese aveva conferito alla Compagnia delle Indie Orientali il monopolio del rifornimento di tè sul mercato americano per evitarne la bancarotta.

[6] Si deve sottolineare che Burke si trovò sempre nella schiera dell’opposizione al governo durante la sua carriera politica.

[7] Nel 1767, con i Townshend Acts, ai coloni furono imposti nuovi dazi sull’importazione di vetro, piombo, vernici, carta e tè, e fu istituito il Consiglio di vigilanza doganale per l’America, allo scopo di imporre loro la stretta osservanza degli Atti di navigazione.

[8] A questo proposito Burke prende in considerazione il preambolo dell’Atto del 1767, che istituiva il dazio sul tè, nel quale vi era scritto che il provvedimento serviva per coprire le spese relative al funzionamento dell’apparato giudiziario, dell’amministrazione civile in generale e della difesa delle province dell’impero.

[9]Contraddittorio è per Burke la Lettera circolare agli americani del 13 maggio 1769 (dove veniva negato che l’imposizione delle tasse alle colonie americane servivano da entrata alla corona inglese e dove si prometteva di rimuovere i dazi su vetro, carta e tintura) poiché preceduta da un discorso del trono del 9 maggio 1769 dove si appoggiava il ristabilimento di una legge del 1534 (che puniva gli atti di tradimento avvenuti fuori dal Regno), che il governo poteva impiegare per trattare le forme di resistenza dei coloni. Burke evidenzia la pessima figura dell’Inghilterra dapprima pronta a sedare con la forza la ribellione dei coloni e pochi giorni dopo pronta a cedere alle istanze dei coloni togliendo alcune tasse.

[10] A questo proposito Burke invita il governo a vincolare l’America solamente tramite le leggi commerciali.

[11] Da ricordare che i rappresentanti di tutte le colonie, eccetto la Georgia, si riunirono a Philadelphia nel settembre del 1774 nel primo Congresso continentale per stabilire una linea d’azione comune. Non essendo ancora in discussione un progetto di indipendenza dalla Gran Bretagna, ma, piuttosto, la definizione dei diritti delle terre d’America e i corrispondenti limiti dell’autorità del Parlamento di Londra, in una Dichiarazione dei diritti i delegati ribadirono il rifiuto di pagare tasse stabilite da un’assemblea priva di rappresentanti delle colonie, decretando la cessazione di ogni commercio con la Gran Bretagna fino al ritiro dei Coercive Acts. Numerose furono le mozioni di conciliazione da parte del governo inglese (che stabilivano la revoca di alcune tasse se le colonie avessero contribuito spontaneamente alle spese della Corona inglese).

[12] Burke nel suo discorso sottolinea come la mancanza di rappresentanti dei coloni americani al parlamento avesse come conseguenza il rifiuto di una tassazione senza rappresentanza. Tuttavia ritiene che una rappresentanza al parlamento non potesse risolvere i problemi tra le due parti come invece era avvenuto per l’Irlanda e il Galles, che Burke cita ad esempio.

[13] Cit. pag. 87.

[14] Nella sessione parlamentare 1776-1777 il partito Whig, su proposta di Burke, decise di lasciare la seduta parlamentare ogni volta che si dibatteva sull’America, come chiara opposizione alla politica di guerra che la Corona inglese voleva attuare.

[15] Cit. pag.138

[16] Cit. pag.145

[17] Cit. pag. 146

[18] Cit. pag.187

[19] Ibidem

[20] Cit. pag. 189

[21] Cit. pag. 207

[22] Cit. pag. 211

[23] Nel 1773, motivato dalla corruzione della Compagnia (che aveva adottato sistemi illeciti per acquisire potere nei territori indiani), il governo britannico assunse parzialmente il controllo sull’India grazie al Regulating Act. Con tale atto furono creati un Governatore Generale e un Consiglio, che dovevano rispondere direttamente al parlamento inglese. La compagnia subì così una serie di riforme economiche e amministrative, ma conservò sempre il monopolio del commercio.

[24] Cit. pag. 263

[25] Ibidem

[26] Il decreto approvato dalla Camera dei Comuni, fu bocciato dalla Camera dei Lord. L’anno successivo, nel 1784, verrà invece approvato l’India Act di Pitt, con il quale venne istituita una commissione di controllo della compagnia. L ‘India Act è inoltre importante poiché tale atto aggrega politicamente all’Impero britannico l’India fino ad allora controllata dalla Compagnia delle Indie Orientali, alla quale però rimane il controllo commerciale.

[27] Cit. pagg. 353-354

[28] Scrive Burke:<<Inoltre ha conquistato il controllo dei meccanismi di corruzione, rendendo impossibile per chiunque fare carriera senza il suo favore, e costringendo quindi tutti a farsene partecipi e conniventi>>. Cit. pag. 375

[29] Cit. pag. 379

[30] Cit. pag. 389

[31] Cit. pag. 391

[32]Cit. pag. 397

[33] Cit. pag. 435

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