28 Aprile 2024

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Acate. “A TU PER TU” – Intervista a Don Vincenzo Guastella – di Aurora Muriana

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Aurora Muriana, Acate (Rg), 9 marzo 2021.- Don Vincenzo, presbitero dall’8 settembre 2020, proviene dalla Parrocchia San Giuseppe Artigiano di Ragusa e attualmente (precisamente dall’8 novembre 2020) presta servizio nella Parrocchia San Nicolò di Bari di Acate in qualità di vicario parrocchiale. È un giovane sacerdote sorridente, scherzoso, disponibile, preparato e, nonostante il temperamento forte che lo caratterizza, è sempre pronto a imparare da quelle che si configurano come prime e nuove esperienze del suo viaggio vocazionale e dalle persone che gli stanno accanto. La sua famiglia è stata fondamentale nel percorso educativo e di crescita ed è sempre un valido supporto nei momenti particolari e meno facili pur lasciandolo sempre libero nelle sue scelte. È il secondo di tre figli e si intuisce bene come nella sua famiglia si sia sempre respirata “aria di Dio”.

Entriamo nel vivo nell’intervista, che si configurerà sicuramente come una piacevole conversazione amichevole.

I PARTE: VINCENZO, SACERDOTE (quindi manteniamoci nel presente)

1.      Sei un giovane novello sacerdote desideroso di dedicarsi alla comunità e che – si intravede già – ha tanto da donare. In un’intervista rilasciata a fine 2019 al programma “Bel Tempo Si Spera” in onda su TV2000 subito dopo il diaconato hai dichiarato di avere Cristo come “modello” (mi sento di virgolettare questa parola). Quali erano le tue speranze dopo aver ricevuto il dono della vocazione e quali sono le tue aspettative future di vita sacerdotale?

«La vocazione, come ho già raccontato diverse volte in vari momenti di intervista o di testimonianze vocazionali, nasce da quando sono piccolino, è quindi sempre stata presente in me e mi ha accompagnato in tante circostanze della mia vita, soprattutto quando ho abbandonato questa strada. Parlare di speranze in senso stretto quando ho ricevuto la vocazione sarebbe quindi riduttivo. La “speranza” è sempre stata quella di fare la volontà di Dio, cioè capire veramente a che cosa Dio mi chiamasse, anche nella fase in cui c’è stata l’interruzione di un cammino di grande vicinanza a Dio e poi la ripresa di esso. Quello che mi ha sempre accompagnato nella mia ricerca della vocazione è stato trovare quella felicità che Dio aveva posto nella mia vita. Ecco anche il perché dell’allontanamento dalla Chiesa, perché forse in una forma “distruttiva” della fede avevo sempre questa ricerca.»

2.      Il web e i social media hanno un ruolo nell’informazione e nello scambio di contenuti di vario genere. A me personalmente capita di vedere alcuni tuoi post Facebook in cui condividi con costante frequenza spunti di riflessione sulla Parola di Dio elaborati dal blog giovanile dedicato («Eucaristant») di cui ti occupi insieme ad altre persone. Proprio qualche giorno fa ha preso il via un’ulteriore sezione nel blog. Quanto pensi che questi nuovi strumenti digitali possano servire all’evangelizzazione, soprattutto dei più giovani?

«Sono strumenti che soprattutto nella pandemia sono esplosi. Ai giovani dico che internet non è uno strumento negativo e i mezzi di comunicazione digitali non lo sono, se usati bene. Nel 2021 l’evangelizzazione, secondo me, deve essere trasmessa anche attraverso i social per parlare il linguaggio di Dio nel linguaggio umano di questo tempo. Questo ce lo ha insegnato Gesù, che nelle parabole parlava in modo da farsi capire dagli uomini di quel tempo, quindi dobbiamo anche noi cercare di attualizzare il messaggio lasciando sempre la fedeltà al messaggio stesso; questo non significa deturpare la potenza di quello che Dio vuole dirci. L’idea di creare il blog è nata insieme ad un confratello, oggi sacerdote, con il quale ho condiviso a Palermo il cammino di discernimento vocazionale e poi gli anni di seminario. Lui si occupava già di commentare personalmente la Parola di Dio e mi ha proposto di occuparcene insieme, anche e soprattutto come un’esigenza personale. Commentare il Vangelo del giorno infatti porta necessariamente a meditare sempre di più la Parola di Dio quotidianamente, quindi ti consente di trovare il tuo spazio assumendoti un impegno personale mettendolo però anche a disposizione degli altri. Non abbiamo grandi pretese di importanza in merito al blog ma ci stiamo rendendo conto che funziona e che ci sono davvero ottime risposte anche a livello giovanile (ecco perché abbiamo aperto anche una nuova sezione).»

 

Passiamo alla II PARTE dell’intervista, quindi facciamo un salto nel passato e parliamo di VINCENZO, PARACADUTISTA

 

3.      Come tanti sanno, hai un passato da Paracadutista della Folgore. In quegli anni ti sei prima dovuto sottoporre a un rigido addestramento militare che ti ha poi permesso di renderti utile aiutando persone in difficoltà, in particolare i bambini. Adesso, volendo fare un parallelismo, ti chiedo in che modo ti rendi utile da sacerdote oggi e pensi di farlo in futuro e in quale misura la gioia e le emozioni di questo servizio differiscono da quelle delle tue occupazioni precedenti.

«Su alcune cose le emozioni differiscono perché prima si trattava di servire la Patria, ora di servire la Chiesa, una patria spirituale ma anche molto più allargata. Anche oggi che sono viceparroco qui ad Acate, il mio ministero sacerdotale non si ferma solo in questa città ma è proprio rivolto a tutti, non solo nella Diocesi di Ragusa. Un parallelismo con il passato effettivamente c’è. Dopo il giuramento “militare si è per sempre anche quando non lo sarai più”; a maggior ragione, sacerdote si è per sempre, anche nell’eternità, perché quello dell’Ordine è un sacramento che perpetua anche nell’aldilà. Questa mia voglia di fare sempre scelte forti, come può essere diventare un militare, mi ha sempre caratterizzato nella vita. Credo molto nel servizio alle persone, ai bambini soprattutto, nella formazione anche della coscienza dei giovani e nel cercare di portare il messaggio di liberazione che proviene da Dio. Sento davvero una responsabilità più grande rispetto a prima, quella di far conoscere alle persone il vero volto di Dio, cercare di attirare le persone a questo volto, in una società dove forse è stato messo da parte e in cui la figura di Cristo viene considerata capace di ingabbiare piuttosto che di liberare.»

Con le tue riflessioni hai anticipato la successiva domanda, che era proprio incentrata su questo concetto, cioè “Cosa diresti alle persone che per un po’ di tempo e per varie vicissitudini mettono da parte Dio? Anche a te in un certo senso è successo nell’età adolescenziale e in parte negli anni di vita militare pur non perdendo mai il tessuto di fede che ha caratterizzato la tua persona e la tua famiglia. Qual è il tuo pensiero a riguardo?”

Lo spirito di servizio e di aiuto c’è sempre in te. Come ci si sente a passare da una vita fisicamente movimentata in quanto basata su allenamenti e azione ad una vita intellettualmente e soprattutto spiritualmente attiva anche se apparentemente più sedentaria?

«Prima c’era una vita fisicamente attiva perché si allenava il corpo per attraversare prove fisiche specifiche, adesso di allenamento fisico forse non c’è più quasi niente – non c’è più neanche il tempo – e devo ritagliarmi degli spazi quando mi è possibile per fare una passeggiata ma anche qualche corsetta. Spiritualmente e anche fisicamente non ci si ferma mai. Sono dell’idea che se una persona ha voglia di lavorare trova una missione anche dove gli altri non la vedono.»

Sempre parlando del parà che è in te (come abbiamo detto resta per sempre qualcosa della vita militare), vorrei concentrarmi sulla figura di VINCENZO E L’ECO DELL’ESPERIENZA VISSUTA NELL’ESERCITO

4.      Restiamo nell’ambito del tuo passato per una considerazione metaforica e una osservazione naturalistica. Riguardo il primo punto, il paracadute permette la libera caduta controllata e in sicurezza di chi lo indossa sia per scopi civili (anche sportivi) che militari. Quanto la fede, in te comunque forse mai assente, ha rappresentato il tuo paracadute generale?

«Il parallelismo è perfetto. Quando si pensa al paracadutista si ha l’idea di una persona un po’ folle perché sfida le leggi della natura. L’uomo non è fatto per il volo ma vi ha sempre anelato ed è affascinante la visione che il volo offre. La stessa cosa vale con la fede. Un uomo di fede, un uomo che veramente scommette nella ricerca vera di Dio è un uomo un po’ “pazzo di sana follia”. Penso che l’essere umano abbia nel cuore la scintilla della fede (pure chi non è cristiano e chiama Dio in maniera diversa), quasi si trattasse di una ricerca di Dio che Lui stesso ci mette nel cuore appena nati. Questa ricerca, se fatta nella verità e con intelligenza, deve essere un po’ folle. Ecco allora il paracadute: si apre nei momenti in cui si teme di cadere o non si crede più pensando che Dio non esista o non sia presente nella nostra vita. Questa è un po’ l’esperienza che si fa quando si vola: nei primi lanci la paura e l’ansia di precipitare sopraggiungono nel momento in cui ti prepari a lanciarti, non quando fai il lancio. Allora ci vuole quel pizzico di follia mista a coraggio per staccare i piedi dall’aereo e lanciarti nel vuoto sapendo che hai dietro un paracadute che ti si apre di sicuro. Tante volte l’esperienza di fede è questa: si ha paura di quello che Dio può chiedere ma nel momento in cui lo vivi capisci che è quella la bellezza di ciò che Dio ti chiede. Ed è la stessa cosa del lancio: se tu per paura ti blocchi e non ti lanci hai perso un’esperienza che è fantastica, che è fenomenale. Se noi ci facciamo bloccare dalle paure umane non viviamo appieno il lancio che Dio ci fa fare e quello che comporta anche la bellezza del lancio. Perché si sa, nella realtà quando ti lanci da un aereo poi vedi davvero un panorama che da terra non riesci a vedere.»

Continui ad anticipare le mie domande, e questo mostra sintonia nel discorso. L’osservazione naturalistica cui accennavo sopra era proprio riferita a questo. Ripensando ai panorami naturali che vedevi durante le esercitazioni militari planando con l’ausilio del paracadute, oggi che hai una conoscenza abbastanza approfondita delle Scritture quanto rivedi della bellezza del Creato descritta nel Libro della Genesi e cantata dal frate assisiate?

«Come dicevi tu prima, il passato ci aiuta anche a essere quello che siamo noi oggi. Forse questa domanda sempre più forte di chi è Dio e di che cosa vuole nella mia vita è venuta soprattutto durante quei lanci perché quando tu vedi da un’altra prospettiva il mondo e osservi la bellezza della natura, di come è stata “costruita”, di quella che è anche l’opera di Dio nella creazione della Terra, non puoi non farti qualche domanda, non puoi restare senza emozioni davanti a un paesaggio del genere. Nessuno, neanche la natura stessa si può creare da sola, quindi è normale che ci sia stato un dio, un essere superiore che con amore, intelligenza e grande capacità di arte abbia creato tutto questo.»

5.      Come hai detto e si evince da alcune risposte che hai dato, in te c’è sempre l’impronta di ciò che eri prima. Vorrei adesso concentrarmi su una curiosità semantica applicata alla tua odierna quotidianità. Nelle varie espressioni «Dio degli Eserciti» (il sabaoth latino, per intenderci) presenti nelle Letture e nei Salmi, la tua mente rimbalza velocemente al ricordo delle tue precedenti occupazioni militari creando magari un sussulto al cuore?

«Ci sono sempre dei richiami nella mia vita presente con quello che è il passato ma che non è neanche “passato” perché comunque resta sempre in me quella vena militaristica, nel migliore dei sensi. Anche nell’Antico Testamento quando si legge «Dio degli Eserciti», la bellezza di rivedermi attraverso quelle file che non sono più quelle umane ma nell’ “esercito di Dio” – chiamiamolo così – mi fa rendere conto anche che quegli anni, che io fino a qualche tempo fa pensavo fossero persi, sono invece stati una ricchezza e mi hanno portato a fare una scelta così forte.»

6.      Essere stato – come si dice in gergo – “inquadrato” nella vita militare ti fa essere schematico nella liturgia e nello svolgimento del tuo ministero quanto appunto alla parte liturgica? Cosa ha lasciato nella vita di oggi la disciplina forse un po’ spartana che ha caratterizzato la tua formazione militare? Mi sembri molto attento e preciso per quel che ho avuto modo conoscere di te in Parrocchia finora…

«Quello che mi porto dal militare non è tanto l’ “inquadramento” ma gli insegnamenti che quella disciplina dell’Esercito trasmette come valori. Ad esempio, la massima autorità di una caserma – checché se ne dica – non è il comandante ma la bandiera, quindi averne rispetto, cura anche nello svelarla quando c’è l’alzabandiera o nel riporla. Questa è una cosa che mi ha insegnato ad avere rispetto per l’Eucarestia: se per un pezzo di stoffa si ha una così grande venerazione, come non si può avere un’adorazione massima per il Corpo e Sangue di Cristo.»

Quando abbiamo fatto il parallelismo tra le emozioni di ieri e di oggi hai fatto capire che c’è un filo conduttore tra il prima e il dopo. Immagino che l’agguato in terra straniera avvenuto due settimane fa in cui hanno perso la vita un giovane carabiniere e un ambasciatore, nostri connazionali, abbia fatto affiorare in te un po’ di quell’amorevolezza con cui una volta pensavi di aiutare gli altri e il senso di quella bellezza che c’è nel dare servizio a chi ne ha bisogno. Oggi invece aiuti gli altri, soprattutto i bambini e i giovani, a cercare di capire Dio.

Volendo parlare di qualcosa di attuale che riguarda il mondo intero, non possiamo che riferirci al Coronavirus. INFLUENZA DEL COVID-19 è il titolo che ho dato alla penultima parte dell’intervista

7.      Il giorno della tua ordinazione presbiterale come hai vissuto il non poter essere abbracciato da tante persone care (se non dai familiari più stretti) e dalla comunità raccolta in Cattedrale? La stessa cosa è successa per l’accoglienza nella nostra comunità parrocchiale dove sei stato chiamato a muovere i tuoi primi passi di vita sacerdotale. Come vivi questo nella quotidianità? Il tuo è stato un inizio assolutamente insolito rispetto a quanto permesso in tempo non pandemico. Nonostante il mancato gesto fisico di vicinanza ti sei trovato e ti stai trovando bene tra gli acatesi? Ti sei sentito abbracciato virtualmente, voluto bene, accolto?  

«Per quanto io possa sembrare forte, sono una persona abbastanza affettuosa che vuole trasmettere affetto attraverso gli abbracci, le carezze. Vivere questo momento di pandemia è stata una forte prova soprattutto in un momento di quella portata, anche emozionale: il non viverlo come avrei voluto nell’immaginario mio, quello pure di avere davvero la Chiesa di Ragusa riunita tutta in Cattedrale e aver invece dovuto scegliere chi poteva partecipare, anche con molta angoscia… Perché l’ordinazione sacerdotale di un presbitero non è qualcosa che ci appartiene ma è un dono riservato a tutta la Chiesa. E io ho voluto tra gli invitati – diciamo così – dei rappresentanti delle varie parrocchie proprio per sottolineare il fatto che non è una festa mia privata (quindi alla sola presenza degli affetti personali). Viverla in questo periodo è stato però più forte perché quando si pensa a quello che deve venire ci si fa prendere da tante ansie; io invece in quel momento ho vissuto una vicinanza più grande trasmessa dalla preghiera. Anche se non ho potuto abbracciare fisicamente tutte le persone e non ci potevano essere fisicamente tutte quelle che avrebbero voluto partecipare, ho sentito ancora di più la presenza spirituale, una vicinanza che forse se non ci fosse stato il COVID neanche avrei sentito con questa potenza. Poi, quello che ho vissuto di bello è stato l’essere ordinato da S. E. Mons. Cuttitta.»

Oggi specialmente lo diciamo purtroppo con un carico di dispiacere.

«Sì, ma quello sarà un ricordo che porterò con affetto nel cuore. Proprio nonostante la sua malattia, nonostante quello che stava vivendo in quel periodo – perché penso che già sapesse di dover lasciare il ministero – ha messo tanto impegno. Quello che mi ha colpito di più è stata l’omelia, che ha personalizzato perfettamente. E là sperimenti davvero i doni di Dio e che Lui davvero c’è, soprattutto in quei momenti.

Riguardo il mio inserimento ad Acate, innanzitutto preciso di essere arrivato qui con zero pretese e non avevo pregiudizi, anche perché non conoscevo la realtà; la sto però iniziando a conoscere e ad apprezzare adesso. Questo mi ha aiutato ad arrivare con cuore aperto. Generalmente quando arrivavo in alcuni posti nuovi avevo delle sensazioni particolari. Ecco poi perché ti aspetti qualche cosa. Dal primo giorno in cui sono arrivato qua mi sono veramente sentito come a casa, infatti ci sto tranquillamente e vivo in canonica. E ho sentito da subito l’affetto della popolazione “viscarana”.»

“Viscarana”, certo – sottolineamolo…

«Ogni cosa rende bello e unico ciascuno, anche il vostro essere comunque una popolazione che fa lavorare.»

Esigenti, siamo esigenti!

«Ma questo è un bene perché c’è anche la bellezza di scontrarsi con idee diverse, con realtà diverse. Questo fa crescere!»

Forse ai sacerdoti chiediamo troppo però sicuramente pensiamo a come utilizzare la vostra spiritualità e la vostra formazione per arricchirci.

«Io sono contento quando ci sono persone che hanno la voglia di capire, di conoscere, ed è questo quello che cerco di stimolare anche nell’acatese. Se si capiscono realmente le motivazioni per cui si fanno delle cose, allora esse stesse vengono vissute in una maniera più grande: è questa la bellezza. È piacevole pure il fatto stesso di voler conoscere i fedeli di Acate, di andare in giro anche a cercare di conoscere quelli che sono lontani dalla Parrocchia – anche loro mi stanno a cuore – ed è proprio per entrare nel vissuto delle persone e per fare entrare le persone anche nel mio vissuto.»

Anche cercando di avvicinarle alla fede.

«Certo, ma sempre nel rispetto della libertà altrui, non un voler convincere, perché già quell’umanità che ci si scambia rivela il volto di Dio.»

Fatto con amore poi darà sicuramente i suoi frutti.

8.      Fortunatamente il diaconato hai potuto viverlo in un periodo pre-COVID, precisamente il 28 novembre 2019, quindi senza le limitazioni imposte dalla pandemia. Un anno dopo hai pubblicato un post accompagnato da una foto insieme al Vescovo (a te caro, come ti abbiamo già sentito dire poc’anzi), S. E. Mons. Carmelo Cuttitta, in cui hai scritto “Un anno di grazia! Ringrazio Dio […] perché nella mia pochezza mi dà la gioia di poter servire la sua Chiesa”. Quali sono state le ricchezze più grandi che hai sperimentato dal diaconato, tappa importante verso l’ordinazione sacerdotale, ad oggi?

«Se dovessi dire tutto staremmo qua a parlare per molto tempo. Dio davvero riempie la tua vita e ti dà cento volte di più di quello che tu lasci per servire, nella volontà che ha per te. Dal diaconato ho vissuto appunto intensamente quelle grazie che Dio mi ha dato, a partire dal fatto proprio di vivere la mia vocazione e di scoprirla sempre di più. Tante volte si pensa che una volta arrivati all’ordinazione diaconale o sacerdotale si capisca che cosa si sta vivendo ma è proprio da lì invece che parte il capire il dono che Dio ti ha fatto. E sicuramente non lo capiremo mai pienamente in tutto, neanche in sessant’anni di vita sacerdotale. Solo iniziando a vivere e a mettere le mani in pasta riusciremo a intravedere qualcosa partendo proprio dalla mia persona, cioè capire ogni giorno che non faccio il prete ma sono un prete. Questo non è un lavoro ma è un “essere”: io sono sacerdote. Questo soprattutto nei momenti di difficoltà mi aiuta a capire veramente quello che sono, che cosa nel piano di Dio sono chiamato a fare; questa grazia parte dalla piena consapevolezza di quello che Dio ha visto nella mia vita e soprattutto anche poi per riversarlo nelle persone. Quanta gente ho incontrato in questi ormai quasi due anni, quante persone mi hanno aperto il loro cuore, hanno voluto condividere con me anche un pezzo di percorso e Dio me le ha messe accanto nei momenti soprattutto di fragilità; persone che davvero mi hanno voluto bene, mi hanno amato e accompagnato. Questo è quello che poi rende bella la vita del sacerdote, perché non è il fare ma nel fare, il ricevere dagli altri. Generalmente si pensa che sia il sacerdote a dover portare qualcosa in un gruppo o in una famiglia a cui si fa visita ma molte sono le volte in cui io ritorno edificato.»

9.      Restiamo nel concetto del senso di gratitudine vicendevole, bello perché risulta uno scambio. Distanziamento sociale, igienizzazione, utilizzo di mascherine si rendono necessari per proteggere se stessi e gli altri in questo periodo ma i ridotti/mancati contatti sociali e le problematiche socio-economiche hanno forse fatto perdere un po’ il senso di gratitudine. Pensi che si sia troppo concentrati sulla materialità per arrivare a tanto senza saper sfruttare la possibilità di costruire “ponti affettivi”?

«Diciamo che secondo me invece è un po’ il contrario, cioè abbiamo perso la gratuità prima del COVID perché ormai viviamo in un mondo dove tutto è dovuto, dove non c’è quel sentimento appunto di gratitudine, di dire “Non me l’aspettavo”, “Grazie perché…”. Tutto è dovuto, anche quei gesti semplici, di amore; pure quelli di noi sacerdoti nei confronti delle persone molte volte non sono visti come una grazia ma sono dovuti. Ecco il discorso delle aspettative (“Siccome lei è un prete io mi aspetto questo da lei”). Come dice Papa Francesco, dai momenti di crisi si esce ma bisogna vedere come, se migliorati o peggiorati. Allora spero che proprio questo periodo del distanziamento, dell’igienizzazione, della paura anche dell’altro (considerato come un nemico che può infettare) sia visto come un tempo di grazia, tipo la Quaresima che stiamo vivendo. Ci vengono tolte molte cose che prima davamo per scontate ma nel momento in cui ci verranno ridate (forse con una modalità anche diversa) potremmo – chissà – ringraziare perché non è scontato averle. Siamo proiettati al dopo pandemia ma dovremmo invece sfruttare al meglio quello che abbiamo adesso pur in fase pandemica.»

Ci avviamo alla conclusione dell’intervista. Ultima parte: VINCENZO, NOVELLO SACERDOTE

10.  Dalla lettura del decreto di nomina che ho avuto il piacere di leggere personalmente nel giorno del tuo ingresso nella nostra comunità parrocchiale sono ormai passati 4 mesi (era, come abbiamo detto, l’8 novembre) e hai presieduto celebrazioni nei tempi forti (Avvento, Natale, Quaresima ancora in corso) e varie altre. Quali sensazioni ti hanno regalato queste tue prime celebrazioni da sacerdote, senza dimenticare le primissime all’indomani dell’ordinazione?

«La cosa bella che mi porto sempre da ogni celebrazione, qualsiasi essa sia (dalla Messa con i bambini alla Messa appunto nei tempi forti, a prescindere che la chiesa sia piena o che ci siano pochissime persone), è lo scoprirne la bellezza, il vivere quel mistero e viverlo attraverso la mia persona. Nel momento in cui celebro oppure anche quando amministro i sacramenti della Confessione o dell’Unzione degli infermi ci sono delle sensazioni che chi non le vive non le può percepire; in quel momento tu senti davvero la potenza di Dio che opera attraverso le tue mani ma non come qualcosa di cui sentirsi orgogliosi perché – se poi ci penso – dico: «Signore, io sono una nullità. Senza di te io sono niente». In ogni celebrazione che mi accosto a vivere mi viene sempre in mente la frase che ho pensato il primo giorno in cui ho celebrato, cioè «vivere quella celebrazione come se fosse la prima e l’ultima», ossia viverla sempre con quell’intensità, chiedere il dono dello Spirito Santo per capire sempre più a fondo i misteri che ci stanno nelle celebrazioni.»

11.  Ti propongo un’altra tua frase. “Come in ogni cosa, un nuovo inizio scrive la storia dell’uomo.”. Hai scritto questo in un social network il 28 novembre scorso, giorno dell’utilizzo per la prima volta della nuova edizione del Messale Romano e, neanche a farlo apposta, giorno del 1° anniversario del tuo diaconato, come ricordato prima. Questa frase è significativa e ovviamente di ampio respiro. Quali gesti ci parlano di Dio oggi e come possiamo permetterGli di operare nella nostra vita anche quando lo scoraggiamento sembra avere il sopravvento?

«Domanda interessante, per rispondere alla quale mi ricollego un po’ a quello che dicevo prima. In questo periodo del COVID, in cui sembra che tutto sia distrutto e perso, io invece riesco a vederci davvero tante cose con tante opere di Dio, a partire anche dal fatto di quello che ci dona ogni giorno personalmente e di quello che ha donato a tutti anche nel Sommo Pontefice. Lo Spirito Santo agisce sempre nella Chiesa. In questi giorni il Papa è in Iraq e questi sono eventi storici che non sono mai accaduti nella storia dell’uomo; questo ci richiama proprio quella presenza di Dio anche nei momenti peggiori. Dio nei momenti più brutti (anche personali) sta operando in una maniera ancora più profonda e se noi non ci fermiamo solamente al fatto di notare che ci manca qualcosa ma andiamo oltre quella mancanza, ci rendiamo conto che il vedere quella situazione come un momento di scoraggiamento è riduttivo. È attraverso le crisi che si cresce. Può risultare difficile vedere tutto questo perché in determinati avvenimenti ci concentriamo solo sulla nostra condizione. I momenti di scoraggiamento sopraggiungono pure perché noi non vediamo un bene per la nostra vita. Ecco l’avere fede! La vita dei santi è costernata di scoraggiamento. Prendo sempre in esempio Madre Teresa di Calcutta con i suoi quarant’anni di deserto spirituale. L’esempio di queste figure importanti serve a riportarci sempre alla fede vera, originaria. Dall’esempio di queste figure che hanno patito e hanno vissuto quei momenti di scoraggiamento (che possono essere forti) occorre capire che c’è sempre un piano di Dio dietro, che c’è sempre un Dio che non ci abbandona mai, soprattutto nei momenti di crisi. Il termine crisi deriva dal verbo greco krino e indica proprio “discernimento”, non disperazione: quel momento in cui ti viene a mancare qualcosa riesce ad aprirti gli occhi su quello che hai, quindi è lì che Dio opera, nella situazione di crisi (non nel momento del benessere). Dobbiamo allora benedire quelle circostanze perché sono proprio quei momenti che ci fanno crescere, se vissuti bene.»

12.  Come ho scritto nella breve presentazione iniziale, tu sei sorridente e accogliente. Quanto il tuo sorriso ti aiuta a donare agli altri affetto e liete e confortevoli parole e fa stare bene anche te stesso?

«Io credo molto nell’importanza dei segni “esteriori”, non solo nelle parole, e questa è una particolarità che – a quanto mi raccontano – ho da piccolissimo, soprattutto essere sempre sorridente e anche voler vedere gli altri sorridere. Questa tua domanda riporta alla mente un episodio che ho vissuto qui ad Acate. Era per me il periodo del seminario e sono stato invitato dai sacerdoti a venire qui in occasione della festa di San Vincenzo Martire. Al mio arrivo ho parcheggiato la macchina e camminando ho visto fuori dalla porta della chiesa una signora anziana: l’ho salutata e le ho sorriso. Dopo tempo mi hanno fatto sapere che quella signora era rimasta impressionata da quel sorriso. È lì che ho capito davvero che anche un sorriso salva la vita a qualcuno. Tante volte siamo convinti che fare un’opera buona, portare aiuto economico e spesa (cose che ovviamente servono) basti. Se nella vita di tutti i giorni sappiamo donare quel sorriso che viene da Dio, che viene proprio dalla bellezza anche della vita che vivi, salvi più che con le opere materiali. Quando presiedo una celebrazione in presenza dei giovani in questo periodo chiedo loro di farmi un sorriso ma subito rispondono che quasi non ha senso farlo perché con la mascherina non si vede. Per me non è la bocca che sorride, sono gli occhi che sorridono.»

Bene Don, adesso puoi rilassarti: l’intervista è finita. Ti ringrazio per aver accettato la mia proposta di intervistarti, nata sia dal voler farti conoscere un po’ di più alla nostra comunità parrocchiale sia principalmente dalla particolarità della tua storia e dalla certezza di ricevere da te risposte profonde e racconti di vita che potrebbero rivelarsi utili per tanti giovani e che offrono spunti di riflessione.

Spero sia stato altrettanto gradevole per te!

«Molto gradevole! Ogni volta che io mi racconto riconosco che la mia storia attira però, a mio parere, ogni storia vocazionale è bella, anche quella che può sembrare più semplice, perché è proprio una storia d’amore di Dio. Torna anche qui il concetto espresso prima del ricevere: ogni volta che mi racconto la vivo come un dono di Dio e questo mi fa ritornare al perché ho fatto questa scelta, al perché oggi sono sacerdote. Questo, oltre a essere una testimonianza per gli altri, è un ritornare alla mia scelta fondamentale, che è quella di servire Cristo.»

Grazie a te per averci regalato delle riflessioni veramente importanti e molto piacevoli.

Caro Don Vincenzo, in rappresentanza della Parrocchia San Nicolò di Bari di Acate della quale sono organista e mi occupo anche di alcuni “servizi”, esprimo la gioia di averti tra noi con la certezza che unitamente al parroco, Don Mario Cascone, e al sacerdote Don Girolamo Bongiorno lavorerete per la nostra comunità donandoci la vostra competenza e il vostro affetto e spendendovi per far risuonare la bellezza liturgica.

La nostra Parrocchia, che spesso ha accompagnato giovani seminaristi al diaconato e al sacerdozio, farà lo stesso per te nella tua permanenza nella nostra cittadina e ti aiuterà con la preghiera e la presenza affettuosa. Ci auguriamo che tu possa riscontrare nella nostra grande famiglia un concetto a te caro, quello cioè che «tutte le parrocchie sono belle e vi si respira aria di famiglia, aria di Dio». Buon cammino insieme!

Un affettuoso abbraccio e tanti cari auguri in vista del tuo imminente compleanno!

Concludo col dedicarti un aforisma che sembra cucito su di te.

“Il motivo per cui gli uccelli, a differenza degli esseri umani sono in grado di volare, risiede nella loro fede incrollabile, perché avere fede vuol dire avere le ali”.
J.M. Barrie

(creatore del personaggio di Peter Pan)

 

 

 

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