11 Ottobre 2024

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Acate. “Biscari e il suono delle sue antiche Campane”.

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Salvatore Cultraro, Acate (Rg), 20 febbraio 2023.-Sfogliando piacevolmente, ancora una volta il volume -archivio, “Biscari e il suo Martire che sorride”, edito dal compianto, reverendissimo parroco emerito, Don Rosario Di Martino, si scopre un interessantissimo “spaccato” della vita sociale ed economica di Biscari nei primi anni di vita e di sviluppo del feudo, sotto la baronia della famiglia “Castello”. Dopo quasi un secolo dalla sua fondazione, nel 1593, il piccolo borgo di Biscari era già diventato un villaggio di circa 650 anime. Dai riveli di quell’anno ( Gabriella Berrafato: “La Baronia de il Biscari”-Tesi di Laurea 1980) si scopre un dato abbastanza interessante ovvero  che la popolazione era costituita in gran parte  da giovani. “Non c’erano famiglie numerose- ci fa sapere Don Rosario- la media, infatti, era di circa quattro componenti. Quasi tutti erano proprietari di una piccola casa e addirittura qualcuno si poteva permettere la presenza di schiavi o  servi. Molti possedevano un vignale e alcuni una vigna, oltre a bestie da soma, buoi e vacche. La maggior parte  degli abitanti, compresi i ragazzi, si dedicavano alla pastorizia, alla coltivazione della canapa, del frumento, dei legumi e  del foraggio.  In sostanza il tenore di vita non era affatto disagiato. All’epoca la giornata lavorativa era molto lunga: prima ancora dell’alba si partiva per i campi e all’alba  si portavano gli animali al pascolo. Al tramonto si ritornava al villaggio, anche se spesso capitava di pernottare  in campagna, nelle masserie. Ognuno portava il proprio  carico di legna da utilizzare per  riscaldare la piccola casa e nello stesso tempo cucinare la minestra”. Un ritmo di vita, faticoso, semplice, umile ma sereno. A ritmare le ore del giorno e della notte c’era la campana della nuova chiesa Matrice, dedicata a San Nicola che faceva da interlocutrice tra il villaggio e la campagna. Tra le tradizioni italiane e più in generale di tutta la civiltà occidentale e non solo, la campana occupa un posto di primissimo piano. La campana è innanzitutto simbolo della ciclicità nel tempo la quale scandisce le stagioni della natura e le alterne vicende umane. Le campane offrono la reale possibilità di vivere in prima persona una tradizione antica. Il suono della campana è  in grado di suscitare particolari emozioni, profonde ed evocative dall’alto del proprio campanile, punto di osservazione privilegiato, finalizzato ad offrire alla comunità ciò che il suono delle campane rappresenta: ovvero l’evocazione di emozioni sopite, l’alternanza del momento di festa e della fatica, la ciclicità delle ricorrenze umane. Quasi un piccolo mondo sospeso nel tempo che i ritmi della vita moderna non hanno ancora intaccato. Campane all’alba, a mezzogiorno, a sera. Campane che propongono malinconiche meditazioni, o che suonano a festa. Tra i paesaggi sonori, che in passato, e forse ancora oggi, hanno segnato la nostra quotidianità, il suono delle campane ha occupato una posizione centralissima. Le campane si suonavano per molte altre ragioni e funzioni: per invitare gli Angeli ad unirsi alle preghiere dei fedeli, per scacciare i demoni, per disperdere tuoni, temporali, tempeste. Il suono delle campane ha sempre consentito ai singoli di sentire e di percepire quasi fisicamente l’appartenenza alla propria comunità. E la funzione del campanile consisteva, ed ancora oggi consiste, nel superare l’altezza dei circostanti edifici affinchè il suono possa diffondersi facilmente nella comunità. Pertanto anche a Biscari, a seconda del numero dei tocchi si avvertiva dell’avvenuta morte di un uomo o di una donna. “Se suonava “u luriuni”- ci delucida ancora Don Rosario nella sua opera citata- si trattava della morte di un bambino o di una bambina. Il suono della campana incominciò a portare anche dei messaggi particolari, secondo il periodo liturgico. Forse risalgono a questi tempi i gesti significativi che si compivano nei due periodi più forti dell’anno: il suono della campana durante la novena del Natale, avvertiva del passaggio del Bambinello Gesù tutto infreddolito. Le donne prese da grande tenerezza, accendevano un focherello dinanzi alla porta per riscaldarlo. Ai bambini che chiedevano il perchè di quella fiamma si sussurrava loro: “sta passannu u Bamminieddu”. Particolare emozione, fino al fremito, alla commozione e alla pietà suscitava il suono della campana il Giovedì Santo quando, coi rintocchi cadenzati e lenti riempiva l’aria di religiosa mestizia: ricordava il passaggio del Cristo, trascinato dinanzi ai tribunali per essere condannato. Attraverso lo spiraglio delle porte si vedevano uomini e donne, spesso con le lacrime agli occhi, inginocchiarsi riverenti sul nudo pavimento e sussurrare parole di pentimento e richieste di perdono. Tempi meravigliosi quando la fede senza tanti teoremi era dimostrata con la pietà vera e sincera e i misteri della vita di Cristo intessevano la quotidianità degli antenati che, con la loro semplicità, umiltà e povertà credevano nella Provvidenza e vivevano la loro vita all’insegna della speranza cristiana”.

 

 

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