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“L’eredità arabo-normanna alla corte di Federico II di Svevia” A cura di Giovanna Carbonaro

Giovanna Carbonaro, Bologna 13 febbraio 2016.- Premessa: L’imperatore Federico II di Svevia (1194 – 1250) è per la storiografia moderna tuttora una figura affascinante e controversa, che, nonostante siano già trascorsi otto secoli dalla sua dipartita, è ancora in grado di animare dibattiti storiografici odierni. Tedesco di padre (figlio di Enrico VI Hohestaufen e nipote di Federico I il Barbarossa) e normanno per parte materna (fu generato da Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero II il Normanno), Federico II è una delle figure più illustri nella storia dell’Europa medievale. La sua figura è soprattutto legata al meridione italiano: sebbene fosse imperatore del Sacro Romano Impero e re di Germania (ne vantava i diritti grazie alla discendenza paterna), dedicò parte della sua esistenza alla parte sud della penisola italica, alla quale era stato legato per motivi dinastici dal sangue materno (fu così che a soli quattro anni divenne re di Sicilia). A causa di questo amore manifesto e smisurato per l’Italia meridionale, i nemici tedeschi (che lottavano per il trono di imperatore, la cui carica era elettiva e non ereditaria) lo appellarono dispregiativamente “Puer Apuliae”[1], poichè Federico sembrava un semplice ragazzo del meridione che non avrebbe mai raggiunto il trono imperiale. Ma Federico II era molto più di questo. Poliglotta (da autodidatta imparò sei lingue: greco, latino, arabo, francese, tedesco e siciliano),  esperto nelle scienze, nelle arti e in letteratura nonchè abile politico per i contemporanei  fu un uomo fuori dal comune tanto da chiamarlo “Stupor mundi”, meraviglia del mondo. Complice, quindi, il carattere ardito ereditato dal Barbarossa e l’amore per la cultura del nonno normanno, lo Svevo fu una delle figure di rilievo per la sua epoca e, non solo ottenere il trono di imperatore, ma, fondendo l’eredità amministrativa normanna di ascendenza araba con il piglio assolutistico tipico degli Svevi, creò nell’Italia meridionale, secondo alcuni studiosi, forse il primo stato moderno di Europa. Per tutte queste motivazioni illustri studiosi nel corso dei secoli, come Voltaire, Nietzche, Burckhardt e Kantorowicz, si sono espressi in maniera molto positiva nei riguardi dell’imperatore. Burckhardt considerava Federico II il primo uomo moderno sul trono, poichè secondo lo studioso lo Svevo demolì lo stato feudale, apportando dei miglioramenti al sistema giudiziario, fiscale e amministrativo e Kantorowicz vedeva in lui il fondatore dello stato laico[2]. A queste posizioni si oppone il parere di Abulafia, che considera Federico solamente un sovrano come tanti dell’epoca medievale. Non a caso ha intitolato la sua opera “Federico II. Un imperatore medievale”[3]. Il mio lavoro, intitolato “L’eredità arabo- normanna alla corte di Federico II di Svevia”, non ha lo scopo di alimentare ulteriori pagine scritte su questa attraente e controversa figura di sovrano medievale, ma vuole porre l’accento sull’ambiente culturale che aveva formato lo Stupor mundi, ovvero la Sicilia normanna legata indissolubilmente alla civiltà araba, che, per più di tre secoli prima degli avi federiciani, aveva dominato l’isola. Attraverso alcune opere e studi federiciani, in particolare gli scritti di Abulafia, Daniel[4], Kantorowicz e Rizzitano[5], scopo del mio studio sarà proprio quello di analizzare come Federico II di Svevia si rapportò (a livello politico, sociale e culturale) a questa civiltà araba conosciuta precocemente nell’isola siciliana. Come scrisse Abulafia: <<Federico II ricevette in eredità dai suoi antenati normanni assai più della rossa capigliatura e della corona sul capo>>[6]. Egli infatti fu erede di un misto di civiltà arabo-bizantina (quindi orientale, lussuosa, colta, aperta alle innovazioni e al sapere), elaborata dai predecessori normanni, che ne presero il meglio e la fecero propria. Egli ricevette in dono l’eredità arabo-normanna, di cui la Magna Curia federiciana fu emblema.

Cap.1 – La Sicilia:un ponte con l’Islam

Prima di analizzare i rapporti tra la cultura araba e l’imperatore svevo, bisogna chiarire le dinamiche della sua diffusione  in Sicilia dovuta all’espansionismo arabo nel Mediterraneo. I primi contatti tra gli Arabi e l’isola si ebbero sottoforma di incursioni pirateresche. Un’operazione di conquista vera e propria fu avviata dagli Arabi (che si resero conto dell’importantissima posizione strategica che la Sicilia occupava nell’ambito del Mediterraneo) solo nell’827 ad opera della dinastia degli Aghlabiti, che si concluse con la caduta delle ultime fortezze in mano ai Bizantini, Taormina e Rametta, tra il 962 e il 965. La Sicilia divenne così  emirato indipendente sotto la dinastia dei Kalbiti e conobbe grazie agli invasori arabi circa per un secolo un periodo di floridezza e di benessere[7]. È in questo periodo che la cultura araba si diffonde nell’isola e ne influenza la vita sotto vari aspetti. Non fu difficile il trasferimento da parte degli Arabi sul suolo siciliano di costumi, studi, sistemi e metodi pratici di vita quotidiana, nonché di animali e piante. Per quanto riguarda il settore agricolo gli Arabi introdussero un’agricoltura specializzata (grazie all’ammodernamento delle tecniche agronomiche in loro possesso e alle opere di irrigazione, nelle quali essi erano abilissimi). Il livello assai alto dell’agricoltura siciliana (che gli studiosi considerano come la più avanzata del tempo) fu raggiunto nel complesso dell’isola. Allo sviluppo del settore agricolo, corrispose lo sviluppo di industrie di varia natura, promosse e gestite direttamente dallo Stato. Ma l’influsso arabo più sostanziale nel contesto isolano fu quello nell’ambito della cultura. Infatti la Sicilia non era fiorente solo di traffici e di attività produttive, ma anche di studi. Per quanto riguarda la diffusione dell’arabismo bisogna ricordare che nel corso dei primi decenni i conquistatori arabi furono quasi esclusivamente impegnati nelle operazioni belliche e nell’assetto economico-amministrativo del nuovo territorio venuto a far parte della sfera islamica per cui il processo culturale in questi anni è quasi nullo. Il processo culturale e la fioritura degli studi sono invece relativi al periodo kalbita (dal 947 al 1050 d.C), nel corso del quale, mentre continuarono ad avere maggiore consistenza le scienze tradizionali (studio del Corano, diritto, filosofia[8] e scienze naturali[9]), nacquero nuovi studi come la filologia e la storiografia. Un posto di particolare rilievo ebbe anche la poesia. Emblema di questo processo di sviluppo sociale, economico e culturale di cui gli Arabi si fecero promotori fu la città di Palermo, che divenne uno dei più importanti centri del mondo islamico. Divisa in cinque quartieri, la città fu adornata dai Kalbiti da splendide opere architettoniche ed edili dal gusto orientale (moschee, fontane, bazar, palazzi,ecc). Sempre all’interno del sito urbano si svilupparono laboratori artigianali tessili e manifatturieri specializzati nella produzione di stoffe pregiate e della carta di papiro. Vi erano anche molti laboratori specializzati nella lavorazione dell’oro e degli altri metalli preziosi, che davano vita a straordinari manufatti e gioielli preziosi. La città  pullulava di attività commerciali. Ma non solo. Palermo è anche e soprattutto un centro culturale.  Presso le moschee palermitane si studiava l’apprendimento del testo coranico, l’esegesi coranica, la grammatica, la lessicografia e il fiqh (diritto islamico) e nella corte emirale della capitale poeti professionisti e dilettanti davano vita a una letteratura poetica, giuntaci solo parzialmente nei posteriori compendi di un’antologia raccolta da Ibn al-Quattà’ [10]. Centro d’attrazione commerciale e culturale, la città divenne una polveriera dove Arabi, Latini, Bizantini ed Ebrei coesistevano pacificamente tra Islam, Cristianesimo ed Giudaismo. Palermo era divenuta così il più importante centro commerciale e culturale del Mediterraneo e  la Sicilia fu davvero un ponte con l’Islam, unendo così un occidente cristiano-latino in decadenza al mondo arabo-islamico, allora nel pieno del suo splendore politico, economico e sociale. Amministrazione territoriale efficiente, commercio e agricoltura portati ai massimi livelli, libertà religiosa, altissimo livello culturale, lusso e arte, ecco cosa trovarono i Normanni al loro arrivo in Trinacria e con la furbizia tipica degli uomini del Nord fecero proprio questo immenso tesoro.

Cap. 2 – L’eredità normanna

Il dominio politico arabo in Sicilia terminò quando l’isola fu presa di mira da un’altra orda di conquistatori, proveniente dal nord Europa, i Normanni, discendenti dai Vichinghi e avi di Federico II. Come osserva il Vitolo, essi non giunsero in Italia meridionale e in Sicilia come un esercito di conquistatori, ma a piccoli gruppi con la speranza di farvi fortuna. I primi contatti con l’isola si ebbero così sottoforma di incursioni così come era accaduto per gli arabi. Dopo questi primi approcci, fu Roberto il Guiscardo (della famiglia degli Altavilla e il vero artefice delle fortune normanne in Italia meridionale) che nel 1061 avviò la conquista della Sicilia musulmana. Tale impresa fu da lui poi affidata (per completare la conquista del Mezzogiorno continentale) al fratello minore Ruggero, soprannominato successivamente il <<Gran Conte>>. L’isola era allora in piena fioritura economica e culturale,ma in crisi sul piano politico a causa delle tendenze autonomistiche  delle signorie locali, il che favorirono la conquista normanna, che tuttavia durò quasi un trentennio. Nel 1130 il figlio del Gran Conte, Ruggero II  fu incoronato dall’antipapa Anacleto II re di Sicilia. Si formava così un regno (che comprendeva quasi tutta l’Italia meridionale più la Trinacria) destinato a durare fino al 1860. Così eliminate le ultime resistenze con la conquista di Napoli nel 1139, Ruggero II poté concentrarsi  sull’organizzazione del suo regno, che si configurò in breve tempo come uno dei meglio organizzati del tempo[11]. Con la conquista normanna del suolo siciliano, l’Islam (come religione e come cultura) e Arabi e Berberi (in quanto popolazioni distinte da proprie caratteristiche) furono oggetto di estirpazione, la quale, tuttavia venne attuata solo perché a lungo andare parve opportuna ai vari sovrani normanni fino all’imperatore Federico II compreso. Ma, come evidenziato da Daniel, furono questi stessi sovrani che per ragioni di opportunità politica sfruttarono l’appoggio delle popolazioni suddette[12]. Infatti sfruttarono a fondo le strutture di governo ereditate dagli Arabi di Sicilia e dai Bizantini in Puglia e Calabria , dotando il loro regno di una efficiente amministrazione, che si articolava in uffici centrali operanti presso la corte di Palermo e in uffici periferici. Questo diede loro la capacità di produrre leggi e di procurarsi entrate fiscali nonché il controllo dell’apparato ecclesiastico, che avvicinava il Regno di Sicilia più agli Stati del mondo arabo-bizantino che a quelli dell’Europa. In Sicilia si ebbe così un utile scambio di idee e di modi di vita tra musulmani e cristiani. Quindi nonostante i nuovi conquistatori avessero adottato una simile politica nei confronti dei ‘figli del profeta’, la cultura araba sopravvisse e, anzi, fu da loro assimilata insieme agli elementi ellenici-bizantini ed ebraici per essere poi lasciata in eredità a quello che da molti studiosi viene considerato l’ultimo sovrano normanno (per ramo materno), ossia Federico II di  Svevia. Ne sono testimonianza gli Arabi che non erano emigrati (come era accaduto invece per la maggioranza) e che riuscirono bene ad inserirsi sia nell’apparato amministrativo sia nell’esercito dello Stato normanno e la cultura arabo-siciliana che continuava a fiorire nella città, e a Palermo in particolare, conferendo alla corte normanna un carattere del tutto particolare nel panorama politico-culturale dell’Occidente cristiano. La Sicilia normanna, dato che in essa si trovarono mescolate le tecniche amministrative arabe, bizantine e normanne, e che vi sorsero chiese splendide e magnifici edifici in stile misto, e che vi si continuarono a parlare tre lingue e vi sopravvisse l’onomastica greca e araba, è stata considerata da parecchi storici la sede dell’unico stato a più culture (legate tra loro da una coesistenza pacifica) e, dedito alla tolleranza, che abbia avuto vita nel Medioevo. Bisogna ricordare che questo fu reso possibile dalla <<[…] singolare abilità degli Altavilla di sapersi attorniare di persone da loro prescelte – (che provenivano dai vari gruppi etnici, Arabi,Bizantini,Ebrei e Latini, di cui si componeva il tessuto sociale del regno) – perché ne fossero serviti,mettendo a disposizione della corte le loro qualità ed è a questa loro abilità che dobbiamo far risalire la lunga permanenza […] a corte di tanti musulmani […]>>[13]. Essi ricoprivano cariche prettamente amministrative o facevano parte dello stuolo di servitori. Particolare era la figura dell’eunuco. Esso poteva ricoprire o  la carica di agente di fiducia del sovrano o quella di segretario o talvolta anche quella di comandante militare. Anche se per ricoprire le massime cariche a livello pubblico era d’obbligo per i maomettani convertirsi al Cristianesimo, dalle fonti sappiamo che la piccola ‘comunità musulmana ’ di corte viveva nella piena osservanza delle prescrizioni dell’Islam-religione. Nonostante i sovrani normanni fossero cristiani, avevano permesso ai loro  servitori di professare la loro fede e spesso fornivano loro protezione quando venivano ingiuriati da accuse pesanti dagli elementi cristiani della corte, che vedevano negli Arabi un gruppo sociale concorrente e diverso per cultura e tradizione, da sospettare che esercitassero un’influenza ostile e sinistra sulle autorità. Ma tale ostilità contagiò successivamente anche i nobili e i sovrani,per cui  le fonti ci descrivono atti di intolleranza religiosa verso gli Arabi: è il caso dell’eunuco Filippo, che fu giustiziato nel 1154 (l’ultimo anno di regno di Ruggero II), per essere colpevole di maiestas (alto tradimento), cioè per aver continuato a coltivare la fede islamica, nonostante fosse stato battezzato e divenuto un cristiano[14]. Si  possono enumerare ancora altri casi di atti intolleranti  come la rivolta del 1161 (sotto il regno di Guglielmo I) scoppiata nel  palazzo reale,dove i rivoltosi trucidarono tutta la gente di stirpe araba  e di fede coranica che riuscirono a trovare. Dopo questi episodi molti arabi preferirono lasciare la Sicilia,che ritenevano ormai un luogo non più sicuro[15]. Se sotto gli Altavilla l’Islam-religione subì un duro colpo a causa della politica di conversione forzata al cristianesimo e degli atti punitivi contro chi continuava a professare la fede islamica in segreto, invece l’Islam-pensiero subì un rinvigorimento. Gli Altavilla furono infatti grandi mecenati del sapere e la loro corte diede contributi significativi alla cultura del tempo, elaborando la cultura arabo-ellenica insieme a quella cristiana che avevano conosciuto nell’isola e restituendola sottoforma di opere letterarie e costruzioni architettoniche, che faranno parte del patrimonio culturale ereditato dal grande Federico II di Svevia. I sovrani normanni, che più si distinsero a livello culturale e che si possono considerare come predecessori (a livello intellettuale) dell’imperatore svevo, furono tre: Ruggero II (1130-1154), Guglielmo I <<il Malo>> (1154-1166) e Guglielmo II <<il Buono> >(1166-1189). Come scrive Abulafia <<agli albori del XII secolo, la reggia di Ruggero II era un faro luminoso per i poeti musulmani, che ne cantavano le lodi in parte perché avidi di ricompensa ma anche perché ammirati della sua saggezza. […] Sotto Ruggero la corte siciliana si inserì in un più ampio reticolo di cenacoli sparsi per il Mediterraneo centrale, con connotati prevalentemente musulmani. Più di uno di questi poeti […] raggiunse fama imperitura>>[16]. Si ricordano Ibn Hamdis, Ibn Bashrùn , Abd ar-Ramàn Ibn Muhammad al-Buthiiri e Abd ar-Rahmàr il trapanese. I versi di questi poeti  ci sono pervenuti grazie all’antologia di Al-Imàd Al-Ishafani[17]. Ruggero era però soprattutto attratto dal seducente mondo della scienza. Matematica, fisica, medicina, astronomia, geografia erano gli studi privilegiati a corte. Famoso fu il geometra e astronomo Moammad Ibn Isà Ibn al-Mun’im, un’autorità in questo settore scientifico. Ma la figura più importante della corte di Ruggero II fu il geografo arabo-maghribino Al-Idrisi. La sua fama e la sua venuta presso la corte normanna di Palermo(avvenuto verso il 1138) è legata al Kittàb Ruggiàr (il <<Libro di Ruggero>>) [18], opera geografica di cui il sovrano si era fatto iniziatore e la sua stesura durò circa un quindicennio. All’opera lavorò una vera e propria commissione scientifica, presieduta verosimilmente dallo stesso Ruggero e visionata da un segretario coordinatore dei lavori e traduttore, indicato col termine wasità (che significa intermediario). Non è escluso che il predetto wasità fosse lo stesso Al-Idrisi, che forse arrivò a Palermo a lavori già avviati. Al-Idrisi ebbe il compito di raccogliere i dati, controllarli e metterli per iscritto in arabo. Il kittàb Ruggiàr come opera terminata appare dunque come una mistura di racconti di viaggiatori contemporanei, testi di geografi arabi, conoscenze personali, e dunque alquanto disomogenea: minuziosa per quanto concerne la Sicilia e i territori nordafricani, diviene imprecisa man mano che si spinge al Nord ed è fantasiosa per i territori della Cina e dell’India. Tuttavia,  il <<Libro di Ruggero>> è da considerare il più felice tentativo del medioevo siciliano di procedere ad una metodica ed oculata revisione delle nozione cartografiche e geografiche conseguite fino a quell’epoca nello specifico settore. L’arabismo subì un’accentuata flessione sul piano culturale con la morte di Ruggero e fu un riflesso diretto di una caotica situazione interna della Sicilia di cui fu protagonista e vittima il suo successore, Guglielmo I detto <<il Malo>>; ne conseguì una minore originalità della produzione letteraria di quelle due componenti della cosmopolita società dell’isola (ossia quella araba-bizantina e quella latina) e all’impegno culturale subentrò, nei contributi culturali dell’una e dell’altra parte, la tendenza alla trasmissione e alla divulgazione del sapere antico attraverso le traduzioni. Alla corte normanna di Guglielmo I era ancora presente Al-Idrisi, dove si trovava impegnato, nonostante i tumulti in cui furono presi di mira i Musulmani, nella compilazione, su scala ridotta, di un’altra opera geografica, che le fonti citano col titolo di Rawal-unus wa nuzhat an-nafas[19]. Ma la cultura araba alla corte guglielmina è rappresentata da altri personaggi. Ricordiamo innanzitutto Eugenio L’Emiro, che presiedé all’amministrazione finanziaria del regno. Dotto nelle lingue classiche e nell’arabo si dedicò alla traduzione di opere varie. Ma egli si distinse nel settore delle scienze, matematiche soprattutto. Tale particolare competenza ci è testimoniata dalla sua traduzione dall’arabo in latino dei libri II-V dell’Ottica di Claudio Tolomeo: la lingua araba e successivamente latina, assicuravano così la sopravvivenza del testo greco perduto, grazie all’impegno di quell’erudito, che non nascose le difficoltà incontrate nel traslare dall’uno all’altro idioma quei testi. Alla conoscenza dell’arabo da parte dello stesso Eugenio pare debba collegarsi la versione (o revisione) della traduzione greca del kittàb di Kalila wa Dimna [20]. Si tratta di una raccolta di apologhi o meglio di favole che, precisa l’Emiro, rappresentano una guida nelle questioni relative all’amministrazione dello Stato ed alla vita politica in generale. Tra gli altri eruditi e letterati arabofoni operanti alla corte di Guglielmo I, ricordiamo il saggista e poligrafo Ibn Zafar (autore del <<Sulwàn al-mutà’>>, del quale l’arabista Amari diede una traduzione in italiano dal titolo ‘Conforti politici’ [21]) e il lessicografo Abu Hafs Umar ibn  Makki[22]. La  situazione socio-culturale dell’epoca di Guglielmo II  <<il Buono>> è descritta nel Rilha (<<Giornale di viaggio>>) di Ibn Giubayr, viaggiatore e letterato andaluso, capitato in Sicilia intorno al 1184 a causa di un naufragio. Tramite la sua opera conosciamo la fisionomia che le maggiori città siciliane avevano assunto in quell’epoca. È egli stesso a narrarci come <<alla corte palermitana il sovrano, che appare ad Ibn Giubayr non dissimile da un monarca musulmano per le mollezze e gli agi di cui vive e per il fastoso cerimoniale di palazzo, si circonda di vizìr ciambellani, paggi e servitori musulmani su cui faceva grande affidamento>>[23]. Ed è proprio Ibn Giubayr  che, per la grande conoscenza della lingua araba, può essere considerato il primo <<arabista>> dell’isola. Figure arabe-musulmane illustri  della seconda corte guglielmina furono inoltre il poeta ed epistolografo egiziano Ibn Qalaqis e il faqìh (ossia un giureconsulto con una funzione imprecisa  o un qadi,cioè un giudice) Ibn Fatih[24]. Inoltre il Buono, come i suoi predecessori, mostrò di apprezzare la scienza e l’esercizio professionale di hakìm (medici) ed astrologi di passaggio dall’isola e forse anche di stabile dimora siciliana. Clima, dunque, fra i più favorevoli quello della corte di Guglielmo II per la sopravvivenza di una cultura arabo-islamica di cui era garanzia ed indispensabile presupposto l’esigenza delle moschee con gli imam e mu’adhdhin: elementi senza i quali la preghiera della comunità non avrebbe potuto avere il suo canonico svolgimento, ma anche talvolta buoni conoscitori del Corano e delle scienze tradizionali, e pertanto chiamati ad insegnare quello e queste proprio in quei luoghi di culto a cui erano addetti con le ricordate funzioni. Il Buono, seppur cristiano, fu credente se non nei valori strettamente teologici dell’Islam almeno in quelli della civiltà di cui i suoi sudditi musulmani erano depositari ed ancora operanti esponenti. Per cui sulla tolleranza anche di quest’ultimo sovrano normanno verso l’Islamismo non vi sono dubbi.

 Cap. 3 – Federico II in Sicilia: la scoperta del mondo arabo

Federico II di Svevia arrivò a Palermo alla tenera età di tre anni e un anno dopo fu incoronato re di Sicilia a soli quattro anni. Alla morte della madre Costanza, avvenuta nel 1198, Federico II passò sotto la tutela di papa Innocenzo III e il regno cadde così nella più totale anarchia dove normanni, tedeschi, arabi e soldati pontifici erano impegnati in una lotta senza quartiere per conquistare il potere, detenuto solo ufficialmente da un bambino. Il piccolo sovrano crebbe così in un clima di tensione e confusione politica e fu lasciato da solo ad assistere alle varie usurpazioni del suo trono da parte di vari personnaggi. Leggende narrano che il piccolo sovrano vagasse affamato per le strade palermitane e che i suoi sudditi impietositi lo accogliessero in casa e lo sfamassero. Leggenda o meno, Federico II crebbe da solo alla corte palermitana e grazie ad un’indole forte e ad un’intelligenza fuori dal comune, diverrà un sovrano illuminato e dalla vasta cultura, assimilata per la maggior parte da autodidatta. Ed è in questa Palermo poliglotta e multietnica ereditata dal nonno normanno, che lo Svevo si formerà e conoscerà il mondo arabo. Anche se all’arrivo del piccolo sovrano l’elemento arabo urbano era stato quasi completamente liquidato (infatti dopo i moti musulmani, avvvenuti alla fine della dinastia normanna, le colonie arabe cittadine erano state disperse e costrette a rifugiarsi sui monti), alla corte palermitana erano ancora numerosi i maestri arabi, che seppero influenzare Federico II e lo iniziarono alla lingua e alla cultura musulmana nonostante i suoi primi insegnanti fossero degli ecclesiastici cristiani. <<Arabi erano stati i suoi precettori. Araba la lingua che egli aveva orecchiato nelle stanze della cancelleria. Araba la matrice delle favole ascoltate: con il Kittàb di Kalila wa Dimna s’era sgranato agli occhi del principino tutto un  fantastico mondo di cose mirabili e animali parlanti. […] Per le sale del Palazzo Reale, il piccolo re s’era poi edotto ai Conforti politici di Ibn Zafer. E per i cortili e i giardini palermitani il fanciullo era cresciuto nel vivace cosmopolitismo post-normanno, habitat più stimolante di un castello sperduto nelle foreste di Svevia o Alsazia>>[25]. Negli anni della fanciullezza Federico II raccolse così l’eredità intellettuale araba lasciatagli dai suoi avi normanni. Tuttavia ancora fanciullo, appena quattordicenne, prese l’effettiva reggenza del suo regno e si lanciò alla conquista dell’impero, divenendo prima re di Germania e poi imperatore. La conquista del potere lo terrà lontano dalla Sicilia per ben otto anni. Quando vi fece ritorno fu costretto a punire quel mondo arabo che lo aveva formato da bambino. Durante la sua assenza, i Saraceni di Sicilia erano diventati padroni di vaste zone interne dell’isola, sottraendosi al controllo della monarchia. Lo Svevo fu costretto a combatterli con le armi e attuò una ferrea politica di trasferimento della popolazione musulmana nelle città distrutte, annullandone la presenza sul suolo siciliano. Gli scontri, avvenuti tra il 1222 e il 1224, si conclusero con la sconfitta dei ribelli musulmani, che furono deportati a Lucera (nell’attuale Puglia settentrionale). Il primo contatto politico con l’arabismo fu dunque aspro e duro. Proprio questo comportamento sarà uno dei tanti che porterà gli studiosi a giudicare l’imperatore svevo come una figura contraddittoria. Tuttavia, come evidenziato da Daniel, la deportazione non è un atto contraddittorio di un sovrano filoarabo che fu fautore della scomparsa araba in Sicilia, ma un atto di opportunismo sulla scia degli avi normanni[26]. L’idea di Federico non è quella dello sterminio di massa (egli ama gli arabi e sa dell’importanza della loro forza militare), ma di isolarli completamente a Lucera per far dipendere esclusivamente  la loro soppravvivenza e sicurezza dall’imperatore in persona. Quindi non si deve pensare a Lucera come un campo di concentramento tedesco poichè Federico permise alla popolazione araba di vivere secondo le loro usanze e di praticare liberamente il credo maomettano senza esser perseguitati o accusati di tradimento. La deportazione dei Saraceni a Lucera, se in un primo momento può fare pensare ad un atto di crudeltà e di lesività dei diritti dei propri sudditi estirpati dalla terra in cui vivevano da qualche secolo, fu in realtà un  grande atto di tolleranza inconsueto per un sovrano cristiano dell’epoca e anche una sorta di protezione per quel popolo  che ammirava e che era in grado di far vivere “liberamente” secondo i loro costumi anche nel suo regno. L’episodio di Lucera sarà uno dei primi fatti ad inasprire i rapporti con il papato, preoccupato da Federico che iniziava a subire le influenze del mondo arabo, comportandosi più come un sultuno orientale che come un re cristiano. Come nota lo studioso Scimè egli <<nella vita privata è più un musulmano che un cristiano[27], nella concezione dello stato è un pagano>>[28]. <<Nel campo politico e amministrativo preferisce lo stato romano o quello musulmano dove il capo dello stato […] è insieme capo spirituale e temporale. E sue presunte asserzioni […] stanno a documentare uno stato di animo di un uomo […] che voleva essere cristiano […] ma che non riusciva a conciliare il Cristianesimo con la sua statolatria […] Come in lui non riuscivano a fondersi il germanesimo e il romanesimo […], così non riusciva a comporre in sintesi la concezione cristiana e pagana dello stato>>[29]. Sulla contraddittorietà dell’imperatore si dibatteranno molti studiosi e alcuni sono concordi che Federico fosse travogliato da una crisi interiore poichè era un sovrano cristiano ma viveva come un sultano o meglio un pagano che sembra non credere nella Chiesa ma che poi ne cerca l’approvazione. Sempre Scimè riassume con efficacia tale contraddizione:<<Certamente la figura di questo imperatore che da un lato si fa beffe della scomunica papale che più volte gli viene inflitta e che intanto manda amici influenzati a Lione per scongiurarla, che fa la crociata per vedere di potere indurre i Papi a più miti consigli; che chiama Cristo impostore e poi mette a fuoco con accanimento gli eretici della fede; che dubita dell’immortalità dell’anima […] e poi muore con l’abito da cistercense, lasciando numerosi beneficiati perchè si preghi per la salvezza dell’anima sua […] ci autorizza a chiedere la chiave di volta […] crediamo di averla trovata in quella mancata fusione […]>>[30]. Per quanto riguarda il mondo arabo in particolare, la contraddittorietà dello Svevo va spiegata distinguendo tra gli interessi culturali e gli interessi politici. Nel caso degli ultimi arabi di Sicilia, politica e cultura non coincisero, e la prima, come sempre, ebbe assoluta precedenza per l’imperatore. In definitiva si avvalse dei musulmani e nè fu amico o si dimostrò tale solo per i propri interessi ripercorrendo le orme degli avi normanni, grandi mecenati di studiosi arabi ma anche loro sfruttatori. Nonostante questo Federico II di Svevia fu l’unico tra i sovrani cristiani dell’epoca a poter svolgere il ruolo di mediatore fra il mondo orientale e quello occidentale, instaurando rapporti d’amicizia con i sovrani arabi e i loro intellettuali. E fu grazie alla cultura araba, assorbita dal sovrano in età puerile a permettere di stabilire con i monarca orientali un dialogo interculturale, grande passo verso la modernità e in un certo senso podromo dell’odierna globalizzazione.

Cap. 4 – La Crociata diplomatica e il dialogo interculturale

Con la Crociata del 1228 – 1229, Federico ebbe la sua personale avventura orientale e il primo diretto contatto con il mondo arabo – islamico d’Oriente. Essa fu una crociata diversa in quanto non era stata indetta dal papato, ma fu organizzata dall’imperatore per riallacciare i rapporti con il papa, che poco tempo prima lo aveva scomunicato. Lo Svevo voleva consolidare, con il prestigio di liberatore del Santo Sepolcro, la sua posizione di sommo monarca cristiano. La Crociata non si risolse nel sangue, ma divenne un gioco diplomatico dal quale l’imperatore, grazie al dialogo interculturale instaurato con gli esponenti del mondo  orientale, ne uscì vincitore. Infatti con questa “crociata diplomatica” Federico potè negoziare una tregua decennale, che gli permise di gingere senza combattere la corona di Gerusalemme, restituendo alla cristianità Betlemme e Nazareth. <<L’imperatore rientrava in possesso di Gerusalemme, ad eccezione del recinto di Haran-esh-Sherif, luogo sacro ai musulmani, dove sorgevano la moschea di Omar e il tempio di salomone; ai cristiani era concesso di entrarvi di pregare, così com’era lecito ai musulmani recarsi a Betlemme, ceduta a Federico. Il quale ebbe Nazareth, una striscia di terra della costa di Gerusalemme, Sidone, Cesarea, Acri e altro ancora. […] Federico II aveva ottenuto quanto era fallito a tutti gli altri crociati dopo la conquista di Gerusalemme da parte del Saladino: la liberazione cioè della città santa>>[31]. La “crociata diplomatica”, oltre agli importanti risultati politici, è importante per illustrare il dialogo interculturale che Federico II riuscì a instaurare con le autorità arabe, grazie all’immenso bagaglio culturale posseduto dallo stupor mundi. In particolare strinse amicizia con il sultano d’Egitto Al-Malik Al-Kamil e il suo emiro Fahr-ed-Din: con il primo discusse di algebra e con il secondo di filosofia e architettura[32]. Durante questa sua permanenza in Oriente, furono molteplici in cui il poliglotta imperatore diede prova della sua grande levatura intellettuale e della sua predisposizione verso una cultura del tutto opposta al mondo che lui rappresentava. Uno di questi episodi accadde a Gerusalemme, dove Federico risiedeva presso il kadi Shams-ed-Din. <<Per gentilezza verso il suo amico e per non recare offesa ai suoi sentimenti religiosi, il sultano aveva espressamente vietato ai muezzin di chiamare i fedeli alla preghiera per il tempo del soggiorno dell’imperatore. Uno di loro però, dimentico dell’ordine, salì un mattino in cima al minareto e cominciò a recitare proprio dei versetti avversi ai cristiani. Richiesto di spiegazioni dal kadi, tralasciò la funzione della seconda parte della notte. Il mattino seguente, Federico fece chiamare il kadi e gli domandò perchè il muezzin non avesse lanciato il suo grido; quando seppe dell’ordine del sutano:”O Kadi” si dice abbia risposto “farei ingiustizia a voi, se, per me, doveste cambiare culto religione costumi. Neppure se voi foste nella mia terra, dovreste mutare i vostri usi”. E infatti, quando più tardi un dotto arabo si recò a visitare re Manfredi [figlio di Federico], fu non poco stupito di udire il muezzin chiamare in arabo i fedeli alla preghiera dall’alto dalle torri di Lucera>>[33]. Anche dopo il ritorno in Occidente, l’imperatore mantenne vivo il rapporto epistolare con i musulmani, che conservarono un buon ricordo dell’imperatore, il quale, come nota Kantorowicz, <<un pò per interesse, un pò per inclinazione personale, s’era sempre mostrato come uno di loro e, se, aveva una sincera ammirazione specialmente per la scienza araba, aveva pure ostentato in ogni occasione un profondo rispetto per la loro religione e i loro costumi>>[34]. Dopo questi mirabili risultati, sia a livello politico che culturale, Federico II ritornerà nei suoi possedimenti d’Occidente, dove cercherà di risolvere i problemi e le vicende che attanaglieranno il suo vasto impero fino alla sua morte.

Cap. 5 – La Magna Curia federiciana e la cultura araba

 L’eclettismo culturale assorbito nell’infanzia e il dialogo interculturale stabilito con i vari sovrani orientali saranno un bagaglio che lo stupor mundi porterà sempre con sé e che lo renderà sensibile all’Islam-pensiero. Nella ‘Magna Curia’ di Federico II confluirono perciò gli intellettuali cultori di scienza e di tecnica araba, che erano in grado di trasmettere il portato degli studi più aggiornati di alchimia, medicina, filosofia, matematica, astronomia e astrologia. Nei primi decenni del Duecento fra le personalità illustri della corte federiciana si distinse Michele Scoto, che fu astrologo e filosofo, matematico e augure, medico ed ebbe anche fama di mago e indovino. Sulla vita di questa poliedrica figura si sa ben poco: scozzese di nascita, sembra che avesse cominciato la sua carriera come traduttore a Toledo, dove, nel 1217, aveva portato a compimento una traduzione dall’arabo in latino di un famoso trattato sulla Sfera di al-Bitrugi, il Kittàb al-hay’a e successivamente trasposto dall’una all’altra lingua non pochi scritti aristotelici fra cui la Historia animalium, il De caelo et mundo e il De anima. A lui si ascrivono anche le traduzioni degli scritti aristotelici della Fisica e Metafisica e le Questioni di Nicola Peripatetico. Scoto cita sempre gli scritti aristotelici, tradotti direttamente dal greco ovvero dai loro rifacimenti arabi. Però nella Sicilia federiciana più che Aristotele furono noti Averroè e Avicenna come è attestato dalla Abbrevatio Avicennae de animalibus, che Scoto compose in Sicilia e che dedicò all’imperatore. Tale scritto introdusse per la prima volta la zoologia aristotelica in Occidente. Nel 1220 lo troviamo a Bologna, poi fu in relazione per qualche tempo con la curia papale, che lo raccomandò all’arcivescovo di Canterbury. Arrivò poi presso la corte di Federico II nel 1227: sembra che lo Svevo abbia conosciuto lo scienziato durante un colloquio presso il matematico Leonardo Fibonacci a Pisa.  Michele Scoto fu principalmente un astrologo ed appunto al settore dell’astrologia che appartengono le sue opere più impegnative, tutte dedicate a Federico II, quali il Liber introductorius, il Liber particularis (che si presenta come un’enciclopedia astronomica-astrologica e come una raccolta di tutti gli arcani) ed ancora la Phisionomia, ritenuto il più diffuso dei suoi trattati. Di tali scritti è ben noto il debito che l’autore contrasse con i vari Fakhr ad-Din ar-Razi, Abu Ma’shar al-Balki, Abu’l’abbàs al-Farghani, Thabit b. Qurrah e altri ancora fra i più illustri esperti dell’astrologia araba. Fu anche un pioniere dell’alchimia, capace di introdurre in Occidente una raffinata chimica sperimentale finalizzata tra l’altro alla produzione di oro a buon prezzo. Ricoprì anche il ruolo di medico: oltre a curare le malattie dell’imperatore, mostrò un interesse non superficiale per la fisiologia, ginecologia compresa. Morì, si narra per il crollo della volta di una chiesa, tra il 1235 e il 1236, mentre accompagnava l’imperatore in Germania. Quale traduttore di Aristotele e discepolo dell’astronomo arabo al-Bitrugi, diede un grosso contributo alla trasmissione del sapere della Spagna musulmana all’Occidente cristiano. Scoto rappresentò il legame tra la corte imperiale e i centri spagnoli di traduzione più attivi e fu un prezioso aiuto per le ricerche ornitologiche di Federico II[35]. Il posto di Scoto alla corte federiciana, nel ruolo di astrologo e filosofo palatino, venne occupato dopo la sua morte da mastro Teodoro. Le sue origine sono discusse: originario di Antiochia, si vuole che studiasse prima a Mosul (dove apprese, insieme all’illustre studioso musulmano Kamal-al-Din ibn Yunus, le opere di Alfarabi ,Avicenna, Euclide e Tolomeo) e poi a Baghdad (dove si interessò alla medicina), e che fosse stato inviato presso la corte siciliana, poco prima del 1936, dal sultano d’Egitto Al-Malik Al-Kamil. Nel giro di pochi mesi fu nominato astrologo, e, grazie alla conoscenza dell’arabo, fu cancelliere incaricato della corrispondenza coi sovrani arabi e fu inoltre ambasciatore a Tunisi. Nelle sue qualità di dotto, gli fu comandata poi la traduzione dall’arabo in latino del trattato di caccia del falconiere arabo Maomyn, ossia il De scientia venandi per aves, che l’imperatore consultò per il suo personale trattato di falconeria, il De arte venandi cum avibus. Anche egli ebbe fama di indovino e fu anche medico: Teodoro infatti fu l’autore di un trattato d’igiene derivato dal Secretum secretorum attribuito erroneamente ad Aristotele. Maestro Teodoro rappresentò <<l’autentico mediatore fra la Sicilia federiciana ed il mondo musulmano non solo dell’Oriente islamico ma anche del Maghrib,in quanto redattore arabo delle lettere imperiali ad alcuni monarchi arabi>>[36]. Scolaro di Teodoro si dichiara inoltre, in un trattato di medicina, Pietro Ispano,sulla cui persona si sa ben poco come su quelle di due altri <<filosofi di corte>>: maestro Giovanni di Palermo e maestro Domenico Ispano[37]. Alla corte federiciana troviamo poi alcuni membri dell’illustre famiglia Ibn Tibbon, provenienti dalla Provenza ossia Jacob Anatoli, uno dei collaboratore di Michele Scoto (che tradusse in latino i cinque libri della Logica aristotelica con l’introduzione di Porfirio e il commento del grande filosofo Averroè, e  in ebraico l’Almagesto di Tolomeo e gli Elementi d’astronomia di Al-Fargani) e il cognato Mosè ben Samuel ibn Tibbon, fecondo volgarizzatore di testi arabi[38]. Ricordiamo poi: Jehuda ben Salomone Cohen, che arrivato a corte appena diciottenne, vi compose una enciclopedia sulle opere di Aristotele, Euclide, Tolomeo e Alpetronio; Moisè ben Salomone da Salerno, che tradusse per Federico II le opere di Maimonides e in particolare la sua Dux seu director dubitantium seu perplexorum-Morech Nebuchim (<<Guida dei perplessi>>), dove l’autore cercò di conciliare la visione aristotelica del mondo con i dettami dell’insegnamento religioso giudaico[39]; lo studioso arabo al-Urmawi, che fu allievo di Kamil-al-Din e che scrisse un trattato di logica dedicato all’imperatore; e l’astronomo e matematico Al-Hanifi, anche egli inviato a corte dal sultano Al-Malik Al-Kamil[40]. Quasi tutti i dotti di corte stavano in stretto rapporto con Leonardo Fibonacci di Pisa, che fu il più grande matematico medievale, famoso per aver introdotto in occidente il sistema numerico arabo. Federico II stesso lo incontrò a Pisa. Il Fibonacci non fu comunque al servizio dell’imperatore,ma gli dedicò il suo Liber Quadratorum e inviò al suo filosofo di corte Michele Scoto una rielaborazione dell’Abbaco o Liber abaci. La Magna Curia federiciana con i suoi grandi intellettuali è la più alta espressione del profondo amore e della smisurata ammirazione che Federico provava per la cultura araba, alla quale recò un mirabile omaggio con l’unico suo scritto a noi pervenuto,ossia il De Arte venandi cum avibus [41]L’opera si presenta come un complesso trattato di zoologia, frutto di osservazioni personali o fatte per lui da amici o da specialisti. L’argomento trattato è quello della falconeria, la tecnica orientale che più vivamente interessò l’imperatore (come del resto i suoi avi,gli Altavilla e gli Hohenstaufen). Le fonti a cui attinse Federico furono molteplici. In primis si ispirò al trattato del falconiere arabo Maomyn, il De scientia venandi per aves. Ma importante fu anche lo studio di Aristotele e soprattutto del <<[…] De animalibus, che come sappiamo era stato tradotto a corte, e di cui il nostro sovrano si industriò di affinarne i metodi, privilegiando l’osservazione, l’indagine empirica, e non esitando all’occorrenza di correggere le errate annotazioni dello stesso Stagirita […]. Questa capacità di applicare gli insegnamenti di Aristotele, senza però restarne succube ,è uno dei motivi essenziali per cui il De Arte deve essere reputato una notevole impresa intellettuale e scientifica. Federico saccheggiò anche altri libri di filosofi e si fece un dovere di leggere tutto ciò che di contemporaneo era stato scritto sulla caccia, in caso di dubbio faceva però fede a ciò che vedeva con i propri occhi ,o veniva a conoscere grazie al suo staff di falconieri>>[42]. Il trattato sopravvive in due versione: una è in sei volumi (scritta interamente da Federico), l’altra è in due volumi con aggiunte di poco conto del figlio Manfredi. <<La prima parte è un trattato di ornitologia generale: classificazione degli uccelli, i loro costumi e i modi di nidificare, di covare e di nutrirsi, e la loro distribuzione sulla terra. Diffusamente descritte sono le loro migrazioni, la struttura ossea, gli organi e la relative funzioni. […] Solo nel secondo dei sei libri l’imperatore parla delle varie specie di falconi da caccia. Per lo studio degli animali e per il suo diletto,da tutte le parti del mondo gli inviavano  falchi o li mandava a prendere lui stesso. […] – Inoltre descrivendo i luoghi di provenienza dei volatili – balzano subito all’occhio le sue vaste cognizioni geografiche in rapporto alla fauna e alla flora>>[43]. L’imperatore raccolse il suo lavoro (durato più di un trentennio) soltanto pochi anni prima di morire, e qualche lacuna fu colmata da Manfredi che ricorse sia alla sua esperienza, sia agli appunti lasciati da Federico. <<Non conta tanto il valore filologico dell’opera […] o il fatto che essa diede origine ad altri trattati di caccia […]; conta soprattutto il fatto che cortigiani e quanti erano figli dell’imperatore imparassero a guardare direttamente la natura viva e, volenti o no, imparassero a confermarsi al modo di osservare di Federico>>[44]. Un altro frutto della cultura araba a corte fu l’affermazione della lirica d’amore della Scuola siciliana – la scuola poetica nata attorno a Federico II (grazie alla quale egli può essere considerato il fondatore della poesia lirica siciliana sennonché della letteratura italiana stessa) e che annovera tra i suoi componenti illustri Iacopo da Lentini, l’inventore del sonetto – nella quale l’imperatore stesso si cimentò e che, pur saccheggiando le composizioni dei poeti-musici della Provenza e della Germania,trova riscontro nella mistica amorosa arabo-persiana. Ma Federico II non si accontentò solo del sapere degli studiosi orientalisti o semi-orientali al suo seguito, che gli avevano permesso di indagare e conoscere la cultura araba e di instaurare a corte un clima intellettuale multietnico, ma volle e riuscì ad entrare in contatto, come sappiamo, tramite i rapporti d’amicizia che aveva instaurato con alcuni monarchi arabi, anche con intellettuali orientali puri, dotti di scienza integralmente arabo-musulmana,con cui l’imperatore direttamente o per messaggi e <<quesiti>> discusse  questioni tecniche di matematica,fisica e filosofia. Fu così che alcuni di questi quesiti, di natura cosmologica, furono rivolti a Michele Scoto; <<altri, più specificamente filosofici,  invece i mari non solo alla volta dell’Oriente arabo, ma anche verso quel Maghrib in cui imperava la figura del famoso Ibn Sab’ìn. […] Sulla formulazione delle prime tesi sembra che abbia potuto influire, tra gli altri, anche al-Farghani,astronomo arabo del IX secolo, la cui opera astronomica divenne famosa in Oriente ed Occidente per le traduzioni latine che ne fecero Giovanni di Siviglia e Gherardo da Cremona. […] È molto probabile che tali quesiti si siano affacciati alla mente di Federico quand’egli ,nella sua intraprendente giovinezza, non era ancora travagliato da quello scetticismo filosofico di cui darà prova nei famosi “quesiti siciliani”. Ricordiamo pure l’interesse che intorno a sé suscitò l’imperatore al suo arrivo ad Acri, dove, su sua richiesta, il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil fece in modo che l’illustre monarca fosse circondato da uomini di scienze e lettere:ospitale e delicata premura per chi, come appunto lo Svevo,non aveva tralasciato occasione per avvicinarsi al pensiero islamico. Lo scienziato e giurista egiziano Ahamad ibn Idris al-Qàrafi  in un’opera inedita di ottica, fra le cinquanta questioni di tale disciplina, riprodusse le tre che erano state proposte da Federico al tempo del menzionato sultano>>[45]. Documento  importante per indagare sui quesiti proposti dall’imperatore è il Kittàb al-masa’il as-siqilliyya (Libro delle questioni siciliane)[46], codice arabo della Biblioteca Bodleiana di Oxford, scoperto dal grande arabista Michele Amari e scritto da Ibn sab’ìn. Egli era un dotto musulmano, al quale il sovrano Abd al-Wahid ar-Rashid aveva rimesso un certo giorno alcune quesiti la cui risoluzione fu chiesta da Federico II ai dotti musulmani dell’epoca. Ma, secondo quanto si legge nella premessa del menzionato codice, non avendone avuto risposte soddisfacenti, si rivolse al monarca almohade, il quale fece ricorso appunto ad Ibn Sab’ìn, che rispose agli accennati quesiti. Nelle sue risposte, lo studioso fece notare che l’imperatore non aveva afferrato la terminologia filosofica ovvero sottolineò un approccio dilettantisco alla materia in questione e implicitamente fece intendere che l’unica vera risposta era l’adesione completa alla fede islamica. Alla luce di quanto è stato scritto, si può dire che la Magna curia federiciana fu cenacolo di grande cultura e scienza, dove Oriente e Occidente si fusero sapientemente e dove Federico II assunse il ruole di grande mecenate, anticipando di alcuni secoli le corti rinascimentali. Ma proprio nel mezzo del XIII secolo la cultura arabo – islamica iniziava il suo lungo letargo. Ma, <<prima di addormentarsi, essa passò la fiaccola all’Occidente; e Federico II può ben dirsi uno dei più rappresentativi cursores in questa lampadodromia della civiltà>>[47].

Conclusioni

Scopo del mio studio era illustrare in breve tutto quello che fece parte dell’eredità arabo-normanna lasciata allo stupor mundi. Tramite le opere di Abulafia, Daniel, Kantorowicz e Rizzitano ho analizzato tutti gli elementi che diedero vita al bagaglio storico e culturale dell’imperatore svevo. Per avere una visione ampia e non solo soggettiva e univoca, ho preso in considerazioni i suddetti studiosi per le loro differenti opinioni su Federico II di Svevia. I due più noti, Kantorowicz e Abulafia hanno scritto due opere monumentali sul sovrano ma completamente opposte. Kantorowicz, erede della storiografia tedesca ottocentesca, vede in Federico II il fondatore dello stata laico, ne tesse le lodi e lo giudica come uno dei primi sovrani moderni sul trono, il cui potere non è più basato solo sulla legittimazione divina ma è regolata da un apparato legislativo (le Costituzioni di Melfi). Abulafia, invece, ha un parere negativo e lo qualifica come un imperatore uguale a tanti altri della sua epoca. Il titolo della sua opera “Federico II. Un imperatore medievale” è già un titolo programmatico, con il quale sottolinea la figura di un sovrano tradizionalista e conservatore. Per Abulafia Federico non è il monarca moderno e illuminato di Kantorowicz, ma è un semplice sovrano medievale, che vuole conservare il potere ereditato per diritto di nascita. Se Kantorowicz sottolinea il suo ruolo di mecenate e cultore e protettore della cultura araba, Abulafia descrive la sua corte meno ricca a livello intellettuale di quella dei suoi antenati normanni e l’imperatore come una persona poco tollerante dei figli del Profeta. Ed è soprattutto con la Crociata che Abulafia con grande fervore che Federico II fosse solo un uomo medievale, ancorato all’idea della liberazione della Terra Santa per volere divino e poichè monarca cristiano quindi per obbligo verso la Chiesa. Come invece evidenziato da Kantorowicz e altri studiosi, Federico intraprese la Crociata solo per interesse politico e non perchè mosso da fervore religioso. Lo studioso Daniel sembra inserirsi sulla scia di Abulafia e scrive di Federico come di un opportunista alla stregua degli Altavilla. Per quanto riguarda la sfera  culturale giudica il suo mecenatismo come quello di un dilettante e insinua che alcuni studiosi presenti nella sua corte (come Michele Scoto) non fossero poi così di alto livello come invece narrano le fonti. Infine Rizzitano torna a descrivere l’imperatore come un sovrano di alta levatura intellettuale, amante della cultura araba e la cui corte fu un cenacolo per i cultori dell’Islam-pensiero. Nonostante la varietà di pareri contrastanti, a mio avviso (molto soggettivo essendo nata in Sicilia e perciò avendo insito nel sangue il  bagaglio culturale della storia siciliana) Federico II fu un monarca illuminato e un grande intellettuale, che diede lustro al Regno di Sicilia e che fu degno erede degli avi normanni e del Barbarossa. Mi piace anche pensare che se fosse vissuto ancora qualche anno e il fato gli fosse stato propizio, avrebbe di sicuro sconfitto la Lega Lombarda, i Comuni e il Papato e l’Italia come stato unitario e nazionale sarebbe sorta già otto secoli fa. Mi piace pensare inoltre che la “questione meridionale”, il profondo divario tra nord e sud, non sarebbe mai esistito poichè Federico, che aveva saputo far convivere pacificamente etnie e religioni diverse, avrebbe portato ricchezza e benessere a tutto il territorio, utilizzando al massimo le risorse specifiche di ogni regione. Federico II di Svevia si spense però  il 13 dicembre del 1250. Per mancanza di tempo e di eredi che non seppero eguagliarlo, questo sogno è solo una chimera, un’utopia, che solo un sovrano definito “Meraviglia del mondo” avrebbe saputo realizzare.

Bibliografia

U. Rizzitano, Storia e cu

[1]Con la definizione di Apulia in quel periodo si indicavano i territori non solo della Puglia, ma anche della Basilicata attuali, più in generale indicava il Regno di Sicilia.

[2]Cfr. J. Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien, in trad. Ital. Firenze 1921; E. Kantarowicz, Federico II, Imperatore, Milano 1976.

[3]Cfr. D. Abulafia, Federico II. UN imperatore medievale, Torino 1990.

[4]Cfr. N. Daniel, Gli Arabi e l’Europa nel Medioevo, Bologna 1998.

[5]Cfr. U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo 1975.

[6]Cit. D. Abulafia, Federico II. UN imperatore medievale, Torino 1990, p.49.

[7]Cfr. G. Vitolo, Medioevo. I caratteri originali di un’età di transizione, Milano 2000,  pp.102-103,150-151 .

[8]Gli Arabi recuperarono le opere della filosofia greca in particolare quelle di Platone e Aristotale, la cui conoscenza era andata perduta nell’Occidente latino nei secoli dell’Alto Medioevo e la trasmisero in Europa tramite centri cosmopoliti come lo erano la Sicilia e la Spagna. Particolare importanza avranno i commenti all’opera aristotelica da parte di filosofi come Averroè, la cui traduzione permetterà il fiorire della cultura universitaria europea, soprattutto per le facoltà di medicina, arti liberali e teologia.

[9]Tra gli scienziati furono studiati in particolare il matematico e astronomo Al-Khwarizmi, il medico Avicenna (autore di una canone di medicina), il fisico Alhazen (famoso per il suo trattato di ottica).

[10]Cfr. U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo 1976, p. 269.

[11]Cfr. G. Vitolo, Medioevo. I caretteri originali di un’età di transizione, Milano 2000, pp. 312-315.

[12]Cfr. N. Daniel, Gli Arabi e l’Europa nel Medio Evo, Bologna 1998, pp. 242-243.

[13]Cit. N. Daniel, Gli Arabi e l’Europa nel Medio Evo, Bologna 1998, p. 243.

[14]Cfr. N. Daniel, Gli Arabi e l’Europa nel Medioe Evo, Bologna 1998, p. 237.

[15]Cfr. ibidem, p. 238.

[16]Cit. D. Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale, Torino 1990, p. 37.

[17]Cfr. U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo 1975, pp. 276 – 278.

[18] AL-IDRISI,  Libro del re Ruggero, trad. ital. a cura di M. Amari  e C. Schiaparelli, Roma 1883.

[19]Cfr. U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo 1975, nota 21 p. 283.

[20] AL-MUQAFFA’, Il libro di Kalila e Dimna, trad. ital., Salerno1991.

[21] I. ZAFAR, Conforti politici, trad. ital. di M. Amari, Palermo1973.

[22]Cfr. U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicila saracena, Palermo 1975, pp. 283-285.

[23]Cit. U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicila saracena, Palermo 1975, p. 287.

[24]Cfr. Ibidem 288.

[25]Cit. V. Bianchi, L’Islam in Italia (Medioevo Dossier), Milano 2002, www.stupormundi.it/bianchi.htm.

[26]Cfr. N. Daniel, Gli Arabi e l’Europa nel Medio Evo, Bologna 1998, pp. 244-245

[27]Cerimoniali di corte, abbigliamento e lussi sono d’ispirazione orientale; le leggende narrano che lo Svevo avesse anche un harem.

[28]Cit. S. Scimè, L’influsso di Federico Ii negli orientamenti del pensiero filosofico medievale, in Atti del convegno di Studi Federiciani, Palermo 1952, p. 127.

[29]Cit. Ibidem, p. 126.

[30]Cit. Ibidem.

[31]Cit.  E. Kantorowicz, Federico II, imperatore, Milano 1976, p. 174.

[32]Cfr. E. Kantorowicz, Federico II, imperatore, Milano 1976, p. 178.

[33]Cit. E. Kantorowicz, Federico II, imperatore, Milano 1976, p.176.

[34] Cit. Ibidem.

[35]Cfr. Per la figura di Michelo Scoto: D. Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale, Torino 1990, p. 214; F. Gabrieli, Federico II e la cultura musulmana in Atti del convegno internazionale di Studi Federiciani, Palermo 1952, p. 443; E. Kantorowicz, Federico II imperatore, Milano 1976, p. 305; U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo 1975, pp. 321-324.

[36]Cit.  U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo 1975, p. 324.

[37]Cfr. Per la figura di maestro Teodoro: D. Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale, Torino 1990, p. 221; F. Gabrieli, Federico II e la cultura musulmana in Atti del convegno internazionale di Studi Federiciani, Palermo 1952, p. 443; E. Kantorowicz, Federico II imperatore, Milano 1976, p. 306; U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo 1975, pp. 324-326.

[38]Cfr. Per le figure di Jacob Anatoli e Mosè ben Samuel ibn Tibbon: U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo 1975, p. 327.

[39]Cfr. E. Kantorowicz, Federico II imperatore, Milano 1976, pp. 308-309.

[40]Cfr. ibidem , p. 307.

[41] Federico II di Svevia, De arte venandi cum avibus, trad. ital. a cura di A.L. Trombetti Brudiesi, Bari 2000.

[42]Cit. D. Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale, Torino 1990, p. 225.

[43]Cit. E. Kantorowicz, Federico II imperatore, Milano 1976, pp. 322 – 323.

[44]Cit. E. Kantorowicz, Federico II imperatore, Milano 1976, pp. 324 – 325.

[45]Cit.  U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo 1975, p. 328.

[46] I. Sab’In,  Libro delle questioni siciliane in Biblioteca arabo-sicula vol.3 di M. Amari, Milano1942.

[47] F. Gabrieli, Federico II e la cultura musulmana in Atti del convegno internazionale di Studi Federiciani, Palermo 1952, p. 445.

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