28 Aprile 2024

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Modica, caffè Quasimodo. Sabato letterario su “La storia della Sicilia nelle parole del dialetto”

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Celebrati Martoglio, Calì, Di Giovanni, Veneziano, Buttitta e Meli

Modica, 26 ottobre 2015 – “Il dialetto siciliano non è nostalgia per il passato ma, come del resto qualsiasi patrimonio monumentale che viene salvaguardato , un bene da tutelare perché in esso è racchiusa la storia di un popolo”: con queste parole il Presidente del Caffè Quasimodo di Modica, Domenico Pisana, ha aperto la “Rassegna di poesia e musica popolare siciliana” tra ‘500 e ‘900, che si è svolta, con il coordinamento di Franca Cavallo, sabato scorso al Palazzo della Cultura nel quadro delle celebrazioni per il suo decennale.
E’ stato il dott. Giuseppe Pappalardo a intrattenere piacevolmente il pubblico con una puntuale e acuta relazione, immergendolo, con l’ausilio di slide, nelle radici della storia siciliana ed evidenziando come il recupero del dialetto costituisca un impegno di tutela e di salvaguardia di un “bene culturale” , atteso che rappresenta il simbolo di una civiltà, del cammino di un popolo che è stato crocevia di lingue, di culture e tradizioni.
“E’ ben noto a tutti, – ha sostenuto Pappalardo – , che fin dall’ottavo secolo a.C. la Sicilia è stata crocevia di lingue e culture, è stata luogo di invasori dagli idiomi più diversi: Greci, Fenici, Cartaginesi, Unni, Vandali germanici, Goti di Svezia, Arabi, Bizantini, Normanni. E ancora: Romani, Angioini, Aragonesi, Spagnoli , Austriaci, Borboni, Francesi. È facile, quindi, capire in che misura, attraverso questi influssi, la lingua siciliana possa essersi sviluppata arrivando ad essere quella che si parla e si scrive oggi”. Molte le esemplificazioni fatte dal relatore. Ad esempio, la nostra espressione siciliana “antura”(poco fa) non è altro che il latino “ante horam” e il termine “allippatu”(scivoloso”) corrisponde al “lipos” greco; la nostra “giuggiulena”(semi di sesamo) non è altro che l’arabo “giulgilan” e il nostro “sciarriarisi”(litigare) equivale all’arabo “Sciarr; la nostra “seggia”(sedia) corrisponde al franco-provenzale “seige”; il nostro “travagghiari”(lavarorare) corrisponde al francese “Travailler” e la nostra “pignata”(pentola) non è altro che lo spagnolo “pinada”, come pure la nostra “scupetta”(fucile) e il nostro “sgarrari”(sbagliare) corrispondono ai lemmi spagnoli “escopeta”ed “Esgarrar”.
Nel corso della serata Tilde Cardella e Giovanna Sciacchitano, provenienti da Palermo, hanno recitato sonetti di Veneziano, Meli e Calì, mentre Giovanna Drago, Giovanni Blundetto e Antonella Monaca, hanno declamato testi e sonetti di Alessio Di Giovanni, Nino Martoglio e Ignazio Buttita.
La rassegna è stata piacevolmente arricchita dalla presenza del gruppo “Muorika mia”, che ha proposto canti classici della nostra musica popolare siciliana.
Nelle sue conclusioni Domenico Pisana ha infine affermato che “il dialetto siciliano è l’espressione testimoniale del pathos di una civiltà, è un ‘linguaggio’ detto in una situazione di vita, è uno scandagliare le nostre radici e un rivisitare un mondo che ci appartiene, è l’anima di un popolo e ciò che dà libertà ad un popolo, proprio come cantava Ignazio Buttitta: “un populu diventa poviru e servu quanno ci arrobanu a lingua adduttata di patri:-è persu pi sempri”.
Citando, infine, il “De Vulgari Eloquentiae” di Dante, Domenico Pisana ha evidenziato come “già il Sommo Poeta facesse intendere che tutto ciò che gli italiani poeticamente componevano si chiamava siciliano: ‘II volgare siciliano si acquistò fama prima e innanzi agli altri per il fatto che molti poeti indigeni poetavano in siciliano e per il fatto che la corte aveva sede in Sicilia è accaduto che tutto ciò che si è prodotto di poetico prima di noi fu detto siciliano; denominazione che anche noi qui manteniamo e che nemmeno i posteri potranno mutare’. Da notare – ha concluso Pisana – l’affermazione dantesca ‘nemmeno i posteri potranno mutare’, affermazione che dice la forza è il peso specifico di una lingua destinata ad essere, nonostante tutto, immortale”.

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