Roma. 22.10.2025
Tra avvisi anticipati e nuove limitazioni, la riforma del ministro rischia di paralizzare le indagini. Urge un ripensamento.
Un’altra stretta sull’azione investigativa. Dopo l’obbligo già in vigore di notificare all’indagato l’intenzione di arrestarlo, il ministro della giustizia Carlo Nordio propone ora un nuovo passo nella sua riforma del Codice di procedura penale: l’“avviso di perquisizione”.
Secondo quanto anticipato dalla stampa, la bozza in discussione prevede che gli inquirenti debbono avvisare il difensore dell’indagato con due ore di anticipo prima di iniziare una perquisizione. Un tempo prezioso che rischia di trasformare un atto investigativo a sorpresa in una mera formalità, lasciando il tempo agli interessati per nascondere, distruggere o manomettere le prove.
Non si tratta di un dettaglio tecnico, ma di una modifica sostanziale del modo in cui si svolgono le indagini penali. Se la perquisizione è uno degli strumenti chiave per acquisire elementi probatori, soprattutto in reati di natura economica, mafiosa o informatica, ritardarne l’esecuzione significa, di fatto, neutralizzarla.
Gli stessi magistrati lo denunciano: Marco Bisogni, pm antimafia e membro del Csm, sottolinea come questa norma “metta seriamente a repentaglio le fonti di prova”, aumentando il rischio di cancellazioni da remoto, cifrature forzate e coordinamenti tra complici. Non basta, infatti, prevedere vaghe misure provvisorie per evitare l’alterazione dello stato dei luoghi: nella pratica, sarà estremamente difficile bloccare preventivamente tutte le persone e tutti i dispositivi coinvolti, soprattutto quando le perquisizioni riguardano più luoghi o strutture complesse.
In teoria, una clausola di salvaguardia permetterebbe di omettere l’avviso anticipato se esiste il fondato motivo che le prove possano essere alterate. Ma si tratta, appunto, di un’eccezione, nella maggior parte dei casi, l’avviso resterebbe obbligatorio.
E non è l’unico punto critico della riforma. Altre modifiche previste nella bozza renderebbero ancor più difficile l’attività dei pubblici ministeri. Ad esempio:
l’obbligo di iscrivere nel registro degli indagati anche solo sulla base di un fatto “ragionevolmente inquadrabile” in un reato, anziché “riconducibile” come previsto oggi;
l’eliminazione del requisito della non improbabili del fatto denunciato;
l’ampliamento dei poteri del giudice nel retrodatare l’iscrizione, facendo così scattare prima i termini delle indagini e rendendo inutilizzabili gli atti successivi;
la possibilità di invalidare le dichiarazioni di persone ascoltate senza difensore, anche se formalmente non ancora indagate (come accadde nel noto caso Ruby ter).
Tutte misure che sommate, svuotano l’efficacia delle indagini e rischiano di consegnare l’impunità a chi ha mezzi, potere e conoscenze per manipolare o cancellare le prove.
In un momento in cui la fiducia nella giustizia è già ai minimi storici, interventi come questo rischiano di demolire anche quel poco che ancora funziona. Non è garantismo, ma paralisi investigativa mascherata da tutela dei diritti.
L’auspicio è che qualcuno, nelle istituzioni o nella società civile, intervenga per fermare questa deriva. Non si tratta di difendere una categoria o una prassi, ma il diritto di tutti i cittadini a una giustizia efficace e imparziale. Perché senza indagini, senza prove e senza verità, non c’è giustizia. E senza giustizia, non c’è democrazia.