11 Ottobre 2024

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Quotidiano on-line

UN DIALOGO D’ “ECCELLENZA”! Intervista al Vescovo di Ragusa, S. E. Mons. Giuseppe La Placa, partendo dalla Visita Pastorale alla comunità acatese – di Aurora Muriana

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Aurora Muriana, Ragusa, 13 maggio 2024

Eccellenza carissima,

inizio col ringraziarLa per avermi concesso un’intervista, alla quale voglio dare un taglio distintivo. Essa non vuole infatti essere un reportage (a quello hanno già pensato i giornalisti) della Visita Pastorale ricevuta dalla comunità acatese ma uno spunto da cui trarre ulteriori considerazioni – rispetto a quelle da Lei fornite alla nostra comunità – anche al fine di dare alcune indicazioni di riferimento valide per ogni comunità parrocchiale della nostra Diocesi. Vorrei pure trattare piccoli aspetti personali, di cui spero voglia confidarci qualcosa. L’idea di rivolgerLe un’intervista comunque non è maturata come frutto di riflessione ma è sorta di getto in me (si configura come un “motu proprio” – per restare in tema ecclesiale), sicuramente ispirata dal Suo essere sempre disponibile all’ascolto e dall’aver personalmente avuto spunti per dialogare insieme a Lei.

Se Lei è d’accordo, possiamo entrare nel vivo nell’intervista.

  1. La Visita Pastorale alla Parrocchia San Nicolò di Bari di Acate e alla comunità acatese (cui appartengo) si è svolta dal 14 al 21 aprile 2024, contestualmente ai festeggiamenti in onore di San Vincenzo, protettore del paese. Lei ha più volte manifestato la gioia di aver incontrato una comunità – sia parrocchiale che cittadina – laboriosa, impegnata, attenta, religiosa e legata alle tradizioni. Quali aspetti di vita civica ed ecclesiale hanno maggiormente catturato la sua attenzione?

E – cosa più importante – quanto ha ricevuto in termini di affetto da coloro che ha incontrato e quali ricordi custodirà particolarmente nel Suo cuore?

Gli aspetti della vita civica ed ecclesiale che sono saltati sùbito alla mia attenzione li ho ribaditi più volte mentre mi trovavo ad Acate: sono quelli di una comunità laboriosa e attenta alle relazioni umane. Queste ultime si esprimono anche nei diversi gruppi e nei diversi circoli che ci sono all’interno della comunità civile ma anche nelle diverse realtà e aggregazioni ecclesiali che sono presenti in paese. Ciò che mi ha maggiormente colpito è l’attenzione che viene riservata al mondo dei bambini, infatti mi ha molto impressionato vedere la chiesa piena di bambini che, senza dubbio, rappresentano il futuro della comunità ecclesiale. È chiaro che la formazione che viene impartita sia agli adulti che ai bambini deve puntare proprio sulla crescita integrale della persona, che si manifesta poi nella capacità di assumersi degli impegni per portare avanti la comunità ecclesiale. Anche di questo le singole comunità hanno oggi bisogno. A livello di relazioni personali, è stato davvero molto bello l’avere sùbito instaurato delle relazioni di empatia, di amicizia, di affetto con le persone. E mi ha molto colpito la capacità da parte delle persone stesse di entrare in dialogo col Vescovo, non visto come una figura distante ma come un fratello, un amico, un padre. In questo modo, per me è stato molto più semplice relazionarmi con le persone proprio perché si è sùbito instaurato un feeling, che mi ha poi permesso anche di parlare con semplicità e, al contempo, con chiarezza a tutti.

Questo dipende anche da Lei, dal Suo bel modo di essere, quindi la cosa è reciproca.

In effetti, noi Le abbiamo aperto le porte della nostra cittadina e delle nostre case.

La celebrazione eucaristica di inizio Visita Pastorale è cominciata intonando il canto “Aprite le porte a Cristo” di Mons. Marco Frisina; proprio tenendo fede al datato ma sempre attuale ed esortante monito di Giovanni Paolo II, le abbiamo aperto le porte della nostra comunità parrocchiale, della nostra cittadina, delle nostre case. Insieme ai confratelli presbiteri ha realizzato momenti di condivisione importanti per un confronto aperto e costruttivo. Accompagnato dai nostri sacerdoti e, nel pomeriggio, dal suo discreto e sempre gentile segretario, don Giuseppe Occhipinti, ha dinamicamente percorso le strade del nostro paese entrando in contatto con la realtà acatese.

«Porterò con me il ricordo di ogni volto che ho incontrato. In questi giorni è stato molto di più quello che ho ricevuto perché sono stato circondato dal vostro affetto ovunque sia stato». Questa è una delle impressioni che ho manifestato e dichiarato già durante la Visita Pastorale.

Quell’accoglienza che mi avete riservato non appena arrivato, iniziata in piazza e proseguita fino a fine celebrazione mi ha sicuramente emozionato e impressionato perché non mi aspettavo davvero tutta questa partecipazione di popolo. La Visita Pastorale mi è sembrata qualcosa che la popolazione attendesse e che certamente ha vissuto innanzitutto con curiosità perché forse era la prima volta che si teneva un evento del genere. Con curiosità ma anche con grande partecipazione, che ho poi avuto modo di vedere anche nelle visite che ho fatto nelle scuole e negli altri ambienti di vita cittadina. Ho percepito l’attesa e la gioia di vivere questo incontro col Vescovo.

In effetti (parlo per me in primis) abbiamo atteso il nostro Vescovo, ci siamo preparati – grazie anche alla guida – quindi non si vedeva l’ora di concretizzare la visita.

Con queste considerazioni ha un po’ anticipato alcuni aspetti della seconda domanda. 

  1. Il trinomio Parola-Liturgia-Carità, declinato nel corso del tempo utilizzando termini e locuzioni differenti, scandisce fin dall’antichità la pastorale cristiana e continua a farlo tuttora. Abbiamo già visto dal punto di vista della Parola e della Liturgia come questi àmbiti di vita ecclesiale si sviluppano nella Parrocchia acatese. Quali sono le sue osservazioni riguardo la Carità, che è comunque un punto di forza della nostra realtà?

Come ho evidenziato nell’omelia del solenne pontificale a conclusione della Visita Pastorale, avere un diacono (San Vincenzo) come protettore ci ricorda l’alta vocazione che abbiamo nel renderci solidali con chi è nel bisogno.

Ho già avuto modo di sottolineare più volte quanto sia bello vedere la Caritas lavorare in sinergia con la San Vincenzo de’ Paoli. Va dato al parroco il merito di avere in qualche modo fatto sì che queste due realtà non si sovrapponessero l’una con l’altra o camminassero in maniera parallela: una realtà si dedica di più alla formazione, l’altra si dedica di più all’assistenza. Questo è davvero un esempio (che dovrebbe essere guardato anche da altre realtà ecclesiali) di come si possa lavorare insieme tra associazioni diverse perseguendo lo stesso obiettivo: quello di servire la persona anche nelle sue fragilità, nei suoi disagi, nelle sue povertà. Il lavoro fatto insieme produce frutti migliori.

Questi frutti si stanno vedendo, quindi sicuramente si sta lavorando bene.

Non vorrei tralasciare l’argomento, sorto inaspettatamente, che abbiamo affrontato durante le riunioni su liturgia e pastoralità: quello della distensio animi.

La distensio animi innanzitutto nasce da quella capacità di possedere dentro di sé il bene che dà pace, serenità e gioia alla nostra vita. Questo per noi cristiani non può che essere dato della presenza del Signore. Quando c’è Lui nella nostra vita e quando questa presenza poi la alimentiamo attraverso la Parola, attraverso i sacramenti, attraverso l’incontro con il fratello vissuto nell’accoglienza e nel rispetto, allora si ha quella pace interiore che ci porta davvero a vivere il nostro impegno nel mondo e nella Chiesa, testimoniando quei valori che uniscono la comunità e la Chiesa. La distensio animi è proprio questo: permettere al Signore di lavorare in noi e di lasciarlo fare senza porre ostacoli alla sua presenza, di dare a Lui campo libero per poter agire attraverso di noi.

La distensio animi mi fa sùbito venire in mente Sant’Agostino. Abbiamo forse cambiato i concetti del tempo agostiniano – sposati 15 secoli più tardi dal filosofo francese Bergson, seppur in contesti storici e attraverso movimenti filosofici differenti – connotandolo di tratti aristotelici. Se infatti per quest’ultimo pensatore il tempo è misura del movimento (quindi qualcosa di “materialistico”), per i primi due citati sopra esso è legato soprattutto all’interiorità, meglio spiegabile in funzione della coscienza (quindi in termini di distensione dell’anima).

Si ha troppa fretta e si corre. In riferimento alle celebrazioni liturgiche, la distensio animi si esprime anche con la pacatezza delle risposte, che non devono essere accelerate ma nell’unisono all’interno dell’assemblea liturgica. Questo nasce solo dall’interiorizzazione e quasi dalla meditazione delle parole pronunciate. E questo si riaggancia ai concetti filosofici da te richiamati. Possiamo essenzialmente dire che la liturgia si vive anche seguendone i tempi; in essa sono infatti importanti pure i gesti e i segni. Non ammetterlo sarebbe uno pseudo-modernismo.

Nondimeno, la Liturgia spinge i fedeli a tradurre nella vita quanto hanno ricevuto nella fede (come riportato al capitolo I, articolo 5, della Sacrosanctum Concilium).

  1. Liturgia e Missione: la prima racchiude la Parola e la seconda ingloba la Carità. Entrambe costituiscono le due gambe su cui reggere la Chiesa in termini di «azione sacra» (SC 7) e preghiera ma anche di operosità. Gambe sulle quali camminare, che diventano al contempo braccia con cui raggiungere il cuore delle persone con lo scopo di condurle al Signore.

Il Concilio Vaticano II può essere definito come la nuova chiave di lettura dell’azione interna ed esterna della Chiesa, più precisamente Ecclesia ad intra ed Ecclesia ad extra.

Forse sulla pastorale ad intra (rivolta verso l’interno, cioè verso la Chiesa stessa) siamo abbastanza ferrati, anche se non si smette mai di migliorare.

Lei personalmente come vede la pastorale ad extra (rivolta verso l’esterno), quindi il dialogo e l’interazione della Chiesa con il mondo, soprattutto in relazione alle generali “esigenze” dei tempi moderni?

Papa Francesco ci sta richiamando molto al concetto di «Chiesa in uscita», che non significa Chiesa che abbandona il tempio e va per le strade.  

«Chiesa in uscita» significa proprio avere la capacità di saper coniugare l’aspetto della liturgia e della Carità (potremmo dire l’aspetto della lode e dell’azione) con l’aspetto della testimonianza di quello che abbiamo ricevuto, rendendolo nei confronti dei nostri fratelli. Proprio ieri (12 maggio 2024) abbiamo celebrato la festa dell’Ascensione del Signore al cielo. Ecco, le due tentazioni che noi dovremmo evitare come cristiani – e ne va poi dell’identità della nostra fede stessa – sono da un lato quelle dell’alienazione, del disincarnarsi, del guardare in alto dimenticando che abbiamo i piedi per terra, dall’altro un attivismo, un eccesso di operosità che non abbiano un fondamento nella fonte da cui quell’operosità in qualche modo deve poi procedere. Tale sintesi di una Chiesa che si nutre per donarsi è quella che poi fa del cristiano una persona armoniosa. Perché, in definitiva, «Chiesa in uscita» significa portare quello che abbiamo ricevuto. Ma se non lo riceviamo come lo possiamo portare? E, ancora, dove lo riceviamo? Lo riceviamo nella comunità che si riunisce per lodare, pregare e contemplare. A conferma della teoria sopra esposta, ritengo che una delle cose che noi sacerdoti dovremmo riprendere è la tradizione della benedizione delle case. Questo rito è una delle forme di «Chiesa in uscita» più efficaci perché significa – non solo da parte del sacerdote ma indirettamente da parte della comunità – avere un punto di contatto con le persone, entrare nelle loro dimore, nella loro quotidianità, nelle vicende più o meno belle della loro vita. Pertanto, questa testimonianza della Carità che nasce da una fede vissuta anche come vita liturgica e sacramentale incide pure sulla vita civile.

Nell’esortazione apostolica del Santo Padre Francesco, Evangelii gaudium (datata 2013), si parla anche di «Chiesa in uscita» e di trasformazione missionaria della Chiesa.

  1. I concetti sopra esposti costituiscono punti in sintonia con il cammino sinodale che stiamo vivendo e che culminerà con la celebrazione dell’anno giubilare nel 2025. A mio avviso, anche le Visite Pastorali che Lei ha iniziato proprio quest’anno e che si protrarranno fino al 2027 nella nostra Diocesi appaiono, a mio avviso, come un riflesso di sinodalità: rappresentano un camminare insieme al pastore diocesano partendo dall’instaurarsi di nuove forme di relazioni, dall’imprescindibile ascolto e dibatitto. La sinodalità dovrebbe quindi configurarsi – questo lo capiamo bene – come un modus vivendi et operandi specifico della Chiesa e del popolo di Dio che ne costituisce le membra. Eccellenza, quali pensa possano essere le prospettive del Sinodo anche in relazione a quello che è stato il cammino nella nostra Diocesi?

Auspico vivamente di riuscire a condurre tutte le Visite Pastorali in programma perché le Parrocchie della Diocesi sono tante e comunque si intersecano vari impegni.

La prospettiva del Sinodo è sicuramente semplice: quella di aiutare la Chiesa a riscoprire la sua natura, cioè essere comunità che cammina insieme. Ecclesìa è proprio questo: essere una cosa sola insieme, riuniti per lodare il Signore e per testimoniarLo al mondo.

Il cammino sinodale che noi stiamo vivendo è sicuramente una grazia che il Signore ci sta facendo sperimentare e per me lo è in maniera particolare perché coincide anche con l’inizio del mio ministero episcopale. Quello del Sinodo è quindi un piano pastorale che in qualche modo non mi sono dovuto inventare ma che il Signore mi ha indirettamente messo proprio a disposizione per poter aiutare questa Chiesa locale a riscoprire la gioia e la bellezza del camminare insieme. Questo potrebbe rimanere semplicemente un concetto astratto se non si calasse poi in una dimensione operativa e in scelte concrete. Noi abbiamo cominciato così a fare un percorso che possa portare, ad esempio, comunità parrocchiali limitrofe a pensarsi insieme sia pastoralmente come anche nell’esperienza della vita comunitaria. Ho avviato i cosiddetti «cenacoli di fraternità sacerdotale»: con i sacerdoti ci incontriamo a gruppetti per provare a raccontarci la nostra vita sacerdotale perché poi, quando ci si racconta e comunica l’anima, si riesce a lavorare insieme; se si rimane estranei l’uno all’altro, non nelle cose che facciamo ma in quello che siamo, poi è difficile lavorare insieme. All’interno di una Parrocchia questo si traduce nella capacità di cooperare, di collaborare tra i vari gruppi che ci sono, i quali non sono isole ma riflesso di carismi che vanno messi a servizio dell’unità. E quello che vale per la Parrocchia vale per la Diocesi.

Certo, traslando il discorso in una prospettiva più ampia.

È fondamentale riscoprire il senso dell’appartenenza a una Chiesa locale. Questo è un discorso che il cammino sinodale ci deve aiutare a fare. La Parrocchia di una città non è un’isola rispetto a quella di un’altra ma ognuno all’interno della propria realtà e con la propria originalità contribuisce a rendere più bella l’unità della Chiesa locale.

Molte forme differenti che concorrono all’unità.

Siamo frammenti di un tutto ma se ci immaginiamo al di fuori di questo tutto perdiamo anche la nostra identità. Filosofeggiando un po’, potremmo sostenere che «noi siamo» perché siamo inseriti in un tutto, fuori dal quale semplicemente non siamo. Ovvero, siamo qualcosa che non è né Chiesa né comunità ma solamente un gruppo, un’associazione, un movimento. Ma non siamo Chiesa.

  1. Il concetto di unità sopra esposto introduce parte della successiva domanda, attraverso la quale vorrei adesso dirigere l’intervista verso un àmbito più personale, pur sempre discretamente. Come sempre accade, i discorsi sono sicuramente collegati. Alla quinta domanda mi piacerebbe chiederLe quali motivazioni La spingono ad essere sempre fra la gente. A questo abbiamo in parte risposto attraverso la prima domanda. C’è sicuramente un quid in più rispetto al fatto di porsi al servizio del popolo di Dio rispondendo alla chiamata vocazionale.

È anche in virtù della Sua accentuata affabilità – che abbiamo avuto modo di sperimentare particolarmente durante la Visita Pastorale – che Lei cerca una corrispondenza nella presenza del “gregge diocesano” alle riunioni o convocazioni indette dalla Diocesi?

Chiarisco innanzitutto che il mio essere Pastore di questa Chiesa io lo concepisco proprio nel senso vero del conoscerne le membra, intendendo, nello specifico, conoscere i membri di questo gregge e crescere nella conoscenza delle singole realtà e delle singole comunità. Quest’ultimo aspetto poi si traduce nel crescere nella conoscenza delle persone perché, in fondo, la conoscenza è il primo passo dell’amore. Non si può amare se non ci si conosce e se non si cresce nella conoscenza. E allora io concepisco proprio il mio essere Pastore di questa Chiesa come un modo per stare in mezzo al gregge, in mezzo alla gente. Io non mi sentirei di essere un Vescovo chiuso nel palazzo.

Questa Visita Pastorale mi ha dato la possibilità di incontrare la gente, di guardarla negli occhi, di crescere insieme a essa e anche di far reciprocamente sentire che il Vescovo non è una persona distante ma uno di loro. È chiaro come questo porti poi i fedeli e le comunità a percepire che nella Diocesi c’è una persona che rappresenta l’unità della Diocesi stessa; questo ruolo non può che essere ricoperto dal Vescovo. Egli è principio e garante dell’unità della Diocesi. Anche il fatto che il Vescovo raccolga il suo gregge per un momento in cui questa unità diventa pure visibile fa sì che quelle siano le occasioni in cui si possa vivere visibilmente questo senso di appartenenza all’unica Chiesa, la quale trova nella figura del Vescovo appunto il suo garante. Inoltre, il fatto di vivere momenti di incontro a livello diocesano ci fa sentire appartenenti a una realtà che non è astratta e che comunque trascende la particolarità della singola comunità parrocchiale. Ed è un’esperienza reale perché – ripeto – al di fuori dell’appartenenza e del senso di appartenenza a una Chiesa guidata da un Pastore, non siamo più nella logica di Dio. È palesemente chiaro che tutto va vissuto nella comunità particolare (ossia nella Parrocchia) ma sempre in comunione, in unità ideale e di spirito. E in alcuni momenti, come nelle convocazioni diocesane cui facevi riferimento nella domanda, la comunione è anche reale.

Reale perché vissuta insieme. Se così non fosse torneremmo alle antiche figure dei vescovi o dei pontefici chiusi nei loro palazzi, quindi non ci sarebbe questo reciproco scambio.

E proprio a proposito di questo lavorare insieme, è come una corresponsabilità uno degli obiettivi che si pone il Sinodo: sinodalità e corresponsabilità. L’ho letto recentemente sul primo numero del 2024 de «L’Aurora», il periodico della Diocesi di Caltanissetta da Lei diretto per ben 15 anni. C’era proprio un trafiletto sul Sinodo, su questa corresponsabilità. Mi sovviene che anche il caro Vescovo Paolo Urso, mediante le Lettere Pastorali da lui scritte, diede per diversi anni vari input pastorali attraverso il titolo Educhiamoci a…; ci fu pure la Lettera Educhiamoci alla corresponsabilità nel 2013/2014. La corresponsabilità alluderebbe anche al mettersi in gioco insieme responsabilmente per rispondere congiuntamente alle esigenze della Chiesa e delle comunità.

Sì, insieme. Sentire che la Chiesa non è né del Vescovo né del sacerdote o del parroco. La Chiesa è un corpo armonioso nel momento in cui tutte le membra di quel corpo contribuiscono a far sì che quel corpo cresca e sia espressione di una realtà che è quella di essere una famiglia diocesana con a capo Cristo, che ne è il Pastore supremo. Corresponsabilità significa che ognuno è chiamato a mettere a servizio della comunità il proprio talento, i doni che il Signore gli ha fatto; di contribuire ad alimentare la vita della comunità facendo la propria parte, occupando il proprio posto sapendo stare al proprio posto. E questo è il modo con cui noi esercitiamo la nostra corresponsabilità. Anche ad Acate ho avuto modo di sottolineare che, al di là di celebrare la messa e di confessare, tutto il resto lo potrebbero fare i fedeli. Il capitolo 6 degli Atti degli Apostoli ai versetti da 1 a 7 narra come i Dodici, essendosi a un certo punto resi conto che le comunità stavano crescendo, scelsero alcuni diaconi per portare avanti tutti i còmpiti e i servizi, riservando per sé la preghiera e l’annuncio della Parola di Dio. Corresponsabilità significa proprio questo: noi non siamo semplicemente utenti di servizi religiosi che ci vengono affidati dal parroco ma siamo protagonisti all’interno della Chiesa e della comunità, per cui, se facciamo mancare il nostro contributo, priviamo la comunità stessa di una ricchezza che invece potremmo mettere a disposizione.

Una ricchezza reciproca, di cui posso portare esempio non solo in quanto organista ma soprattutto come direttore di coro: insieme e in comunione con i presbiteri offriamo alla comunità un servizio che rende noi stessi spiritualmente attivi e più partecipi.

  1. Vorrei fare un riferimento alla figura del Buon Pastore, che è un’immagine della pericope giovannea (Gv 10,1-21).

La Visita Pastorale alla comunità acatese si è svolta sotto il segno del Buon Pastore e di San Vincenzo, un diacono quest’ultimo che (quale protettore del paese) ricorda l’alta vocazione che tutti dovrebbero avere nel rendersi solidali con chi ha bisogno. Queste considerazioni sul Santo Martire sono parole sue, tratte dall’omelia del solenne pontificale del 21 aprile a chiusura della Visita Pastorale.

Una particolare coincidenza trovarsi nella cittadina iblea nella IV Domenica di Pasqua, in cui si ricorda l’icona del Buon Pastore, figura quest’ultima richiamata da Lei come simbolo di tutte le Visite Pastorali diocesane.

Caro vescovo Giuseppe, rammenta qualche episodio della Sua vita in cui il Buon e Bel Pastore ha rappresentato il Suo custode, sorreggendoLa sulle spalle?

Ad Acate custodite il corpo di un Santo Martire, una persona che nel tempo in cui ha vissuto ha testimoniato la fede dando la propria vita. Aver fatto la Visita Pastorale proprio nella settimana della festa di San Vincenzo è stato particolarmente bello perché mi ha anche dato modo di raccogliere la devozione del popolo che, identificandosi nella figura di un santo, auspica proprio di alimentare il desiderio di realizzare la pienezza della vita cristiana, che è la santità. Se una persona non ha il desiderio di diventare santo, allora ha semplicemente tradito il proprio Battesimo perché, mediante questo sacramento, il cristiano riceve il germe della santità, che va appunto costantemente alimentato. È chiaro che la santità vada intesa nel modo in cui Papa Francesco ce l’ha sempre spiegata: la santità della vita, della porta accanto, della quotidianità.

Basta leggere l’Esortazione Apostolica Gaudete et exsultate del Santo Padre Francesco, un invito a dare piena attuazione all’universale vocazione alla santità, dono offerto a tutti e carattere distintivo di ogni cristiano.

La santità è portare a pienezza il proprio Battesimo ma è, al contempo, mettere a frutto nell’impegno quotidiano i doni a noi elargiti da Gesù: santo a casa, santo nel posto di lavoro, santo dovunque. Riagganciandomi a quanto detto prima, San Vincenzo è un esempio, un modello. Il Signore ci dà questi modelli per ricordarci che noi siamo chiamati ad essere quello che “tangibilmente” già siamo: siamo santi ma lo dobbiamo diventare sempre di più ogni giorno.

Questo riguardo la prima parte della domanda.

Rispondo adesso al secondo punto: la figura del Buon Pastore.

Nella mia vita personale, come nella vita di ognuno di noi, Gesù non si presenta di certo con la pecorella sulle spalle (come nel motivo iconografico del Pastore Bello). Il Buon Pastore si rende visibile nelle figure che affiancano la vita di ognuno e che per ciascuno sono emblema di una guida che cerca di condurre sulla strada giusta. Per me, ad esempio, la figura del Buon Pastore è stato il parroco della mia chiesa negli anni in cui facevo il chierichetto, perché mi ha guidato sulla strada del sacerdozio rivolgendomi la chiamata a entrare in seminario. Nel mio cammino vocazionale ho comunque avuto tante figure che mi hanno dimostrato l’amore, la benevolenza, la tenerezza di Dio; i miei superiori di seminario, i miei insegnanti ma anche e soprattutto i miei genitori hanno per me rappresentato il Buon Pastore. Insisto su questo concetto anche per sottolineare che quando noi celebriamo la IV Domenica di Pasqua (che coincide anche con la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni) non dobbiamo identificare la figura del Pastore Bello semplicemente con il Papa, con i Vescovi, con i sacerdoti. Ognuno di noi può essere Buon Pastore perché avrà sempre qualcuno a cui rivolgere una parola buona, a cui dare un consiglio o per cui essere guida nella vita.

Una buona guida e un buon consigliere è già il Buon Pastore.

Questo si realizza anche nei servizi pastorali. Prendo te come esempio perché stiamo conversando: anche tu in qualità di maestro del coro hai una responsabilità nei confronti dei coristi che guidi.

Ancora, è implicito come i genitori assolvano il ruolo di Buon Pastore nei confronti dei figli, così come gli insegnanti nei confronti degli alunni. In definitiva, tutti siamo chiamati a essere pastori, a guidare, a consigliare, a indirizzare, a custodire, ad aiutare qualcuno. Nella vita nessuno ha la responsabilità solo su se stesso.

  1. Per concludere l’intervista, non posso non chiederLe qual è il Suo rapporto con la figura della Vergine Maria, specialmente in questa giornata mariana (13 maggio) in cui – oltre a effettuare l’intervista – primariamente ricorre l’anniversario delle apparizioni a Fatima, e pure a cinque giorni di distanza dall’8 maggio (giornata della memoria liturgica – obbligatoria peraltro in Sicilia – di Maria Madre della Chiesa). Con questo titolo, attribuito alla Vergine da Paolo VI nel Concilio Vaticano II, Ella diventa la Madre del popolo di Dio, non solo la Theotókos (cioè la Madre di Dio).

Questa domanda si colloca peraltro benissimo pure sullo sfondo della festa della mamma per l’anno 2024, celebrata proprio ieri.

Come risponde in merito?

La Beata Vergine Maria la onoriamo e la invochiamo nelle litanie con tantissimi titoli. Ella è certamente la Madre di Dio e Lei, rispondendo «sì» all’Angelo, è proprio diventata la Madre di Dio. Ma è anche la Madre nostra, è la Madre della Chiesa, e questa maternità Maria l’ha vissuta sotto la Croce come una sorta di “consegna”. Partecipando al dolore del Figlio, Lei ci ha quasi partoriti, accogliendo questa maternità dal Figlio suo morente. Se quindi a Nazareth Maria è diventata la Madre di Dio, a Gerusalemme è diventata la Madre della Chiesa. Non ci può essere un cristiano che non abbia l’amore, la devozione alla Vergine, che non si affidi a Lei, perché Maria è l’Odigitria.

A breve – martedì prossimo, 21 maggio – celebreremo in tutta la Sicilia la festa di Santa Maria Odigitria, titolo che letteralmente significa «guidatrice del cammino».

Lei è colei che ci indica la strada e ci porta al Figlio suo. Dante nel XXXIII Canto del Paradiso adopera bellissimi versi – non potrebbe essere diversamente – tra cui quelli in cui La descrive come colei alla cui intercessione deve ricorrere chiunque voglia ottenere una grazia altrimenti, se così non fosse, sarebbe come se il suo desiderio volesse volare senz’ali.

Esatto, si tratta del Canto il cui inizio è affidato alle parole di San Bernardo «Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio», che continua con concetti sublimi riferiti alla Madre di Dio.

E io devo dire che l’8 maggio è formalmente iniziato il mio ministero episcopale attraverso la nomina resa pubblica proprio in tale data. Ho pure voluto che l’ordinazione episcopale venisse celebrata nella giornata della memoria liturgica della Madonna del Carmelo, il 16 luglio.

Possiamo dunque affermare che la Vergine Maria, ha scandito le tappe anche della sua vita.

Sì. Lei è la Mamma celeste che ci guarda dal Cielo, il cui riflesso noi l’abbiamo anche sulla terra attraverso le nostre mamme, che ci manifestano la tenerezza della Chiesa, la tenerezza della stessa Mamma celeste.

Grazie, Eccellenza, per avermi concesso un’intervista interessante, gradevole e dalle varie sfumature.

Concludo col dedicarLe una frase che suggella il concetto di unità della chiesa attorno al Vescovo legandolo alla vivificante presenza dell’Eucaristia.

«Il Vescovo è principio di unità nella Chiesa, ma questo non avviene senza l’Eucaristia: il Vescovo non raduna il popolo intorno alla propria persona, o alle proprie idee, ma intorno a Cristo presente nella sua Parola e nel Sacramento del suo Corpo e Sangue.»

Papa Francesco

(Discorso in occasione dell’Udienza ad un gruppo di Vescovi amici del Movimento dei Focolari, 04/03/2015)

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